16 Feb 2009

Crisi e ripresa


Lo sviluppo delle risorse umane come leva per la ripresa
A Marco DEL PUNTA, Human Resources Director Italy, Corporate People Reward and Development Manager del gruppo KME. abbiamo chiesto in che modo, nella sua azienda, si è cercato di far fronte alla crisi, in particolare dal punto di vista della gestione del personale.

KME Group, leader mondiale nella produzione e commercializzazione di prodotti in rame e sue leghe, vanta una posizione di assoluto rilievo nel panorama internazionale della trasformazione del rame, con 14 stabilimenti produttivi, localizzati nei principali paesi e mercati europei, per un totale di 6.800 dipendenti. Lavoriamo in 16 diversi paesi, compresi Italia e Cina, ma la crisi è stata avvertita allo stesso modo nelle diverse realtà: per tutto il 2008 abbiamo potuto godere di una situazione stabile in tutte e quattro le nostre aree di business (rame, laminati, tubi e barre), ma con l’autunno abbiamo dovuto fare i conti con un brusco calo nelle vendite e quindi nella produzione. Le nostre attività produttive sono infatti strettamente legate ai settori dell’industria e dell’edilizia, che, come molti sanno, sono i settori che stanno maggiormente risentendo del mutamento improvviso dell’economia. Nonostante questo abbiamo deciso, sin da subito di fare di necessità virtù, promuovendo, in tutta Europa, una vasta serie di iniziative, soprattutto a favore e a sostegno dei nostri dipendenti.      La prima mossa fatta è stata il ricorso agli ammortizzatori sociali, cui ha fatto seguito la gestione degli accordi sindacali. In Italia, ad esempio, avevamo annunciato circa 250 esuberi strutturali, pari a più del 15% della forza lavoro, ma siamo riusciti a trovare altre soluzioni, come pensionamenti anticipati, cassa integrazione e contratti di solidarietà. Con questi sistemi, intendiamo gestire sia gli aspetti strutturali sia gli aspetti congiunturali della crisi.

 Diciamo che la risposta di KME Group alla crisi è stata una “risposta multipla”, infatti le azioni sopra citate sono state accompagnate da altri progetti interessanti, tra cui l’apertura di un benevolent fund,fondo di solidarietà strutturato per dipendenti in difficoltà, volto a tutelare i lavoratori in situazioni di stress finanziario e, ancora in fase di definizione, la possibilità per i dipendenti di usufruire di sconti con la grande distribuzione.

Dal punto di vista gestionale ed operativo abbiamo avviato un progetto europeo di sviluppo delle risorse umane che vanta nuovi processi di analisi e sviluppo, nuovi inserimenti, azioni di sviluppo di fasce protette (talenti), nonché un rinnovato impulso per le attività formative legate alla lean production e all’eccellenza operativa.

Questi progetti hanno, ovviamente, visto l’impegno e la partecipazione di tutto il personale KME: ogni livello ha infatti subito tagli e restrizioni, i dirigenti, ad esempio, hanno volontariamente rinunciato all’MBO e alle ferie per finanziare il fondo di solidarietà.

La nostra risposta alla crisi, pensandoci bene, rispecchia fortemente i nostri valori aziendali, in particolare il Working Together, fondamentale oggi per promuovere innovazione nei prodotti e nel mercato e l’Accountability, fattore chiave per garantire l’implementazione delle decisioni all’interno dell’azienda. Da sempre in KME cerchiamo di diffondere comunicazione, interesse, senso di appartenenza e cultura della responsabilità a ogni livello della struttura; le risorse umane sono sempre state al centro dei nostri interessi, e, forse, proprio questa forma mentis ci ha permesso di affrontare in modo concreto e proficuo il momento di crisi che stiamo vivendo.

Vorrei ricordare un detto tratto dagli insegnamenti del filosofo cinese Confucio: “La nostra gloria più grande non sta nel non cadere mai, ma nel risollevarci sempre dopo una caduta”. Investire tempo ed energie nella gestione delle risorse umane, anche in momenti di crisi, significa costruire, passo passo, il futuro dell’azienda.

12 Feb 2009

Crisi

Il ruolo delle Risorse Umane

Abbiamo chiesto a Gianluca GRONDONA, Commercial Human Resources Director di Indesit Company di commentare i risultati della Survey Mading/AIDP “Anticipare la ripresa”. Indesit Company conta oltre 17mila dipendenti per 18 stabilimenti, che in 24 paesi producono annualmente circa 15 milioni di elettrodomestici, frutto di Innovazione e Design, e della continua ricerca della Qualità.


Dr. Grondona, dai risultati della nostra Survey Mading/AIDP emerge l’importanza che per molte aziende ha la Direzione Risorse Umanein un momento di crisi come questo…

“Sicuramente in fasi come queste dell’economia, nazionale ed internazionale, il ruolo delle Risorse Umane è molto importante. E’ chiaro che le soluzioni adottate dalle singole aziende per rispondere alla crisi dipendono dalle diverse situazioni e dalle strategie interne, sicuramente però ci sono tutta una serie di competenze e tecniche che possono essere messe in atto per sostenere le scelte aziendali anche in momenti critici come questo”.

Quando avete iniziato a percepire i primi segnali della crisi?

“In linea generale direi a partire dall’ultimo trimestre del 2008, anche se in alcuni paesi, come la Russia, la crisi è arrivata un po’dopo. In realtà, però, siamo arrivati alla crisi, per così dire, in ottima forma e quindi siamo agevolati nel fronteggiare la situazione. Sono sempre stati nel dna aziendale la capacità di puntare sull’innovazione di prodotto, l’essere flessibili, innovativi e veloci, e questo ci dà quella marcia in più per poter superare l’economic downturn che l’anno nuovo porta con sè”.

Quando pensa si potrà dire concluso questo periodo critico per l’economia mondiale?
“E’ difficile prevedere la durata della crisi, secondo le previsioni ottimistiche si concluderà con la fine del 2009 per quelle pessimistiche nel 2011. La cosa importante è lavorare per essere pronti a fronteggiare ogni congiuntura”.

Voi quali azioni avete intrapreso sul versante del personale?
“Parallelamente al lavoro sull’organizzazione e sui costi, l’opera delle Risorse Umane si concentra soprattutto sulla comunicazione interna, per cercare di garantire stabilità e sicurezza ai dipendenti e i lavoratori. Noi in Indesit, sfruttando la intranet aziendale, abbiamo, ad esempio, costruito degli Info Point sugli argomenti inerenti la crisi per rispondere alle domande dirette dei nostri dipendenti. L’iniziativa ha avuto un buon successo in azienda e sicuramente ha reso più accessibile il rapporto con la Direzione Risorse Umane.Ci siamo, inoltre, impegnati perché i processi di gestione dei dipendenti continuassero in modo normale: sono state mantenute e garantite le consuete riunioni a cascata e le relazioni capo collaboratore”.

Quindi una buona comunicazione interna come arma di difesa contro la crisi. Cos’altro?
“Ovviamente anche la nostra azienda ha messo in atto un piano di contenimento dei costi, ma abbiamo deciso di farlo seguendo una politica di equità su scala internazionale, tenendo contro anche delle diverse legislazioni. In questo modo il sacrificio è stato percepito in modo più equo da operai, impiegati e dirigenti a tutti i livelli. Al di là di questo per noi ha voluto dire tanto arrivare nel 2009 avendo una buona situazione finanziaria ed un sistema organizzativo snello e flessibile, che ci hanno permesso di essere reattivi rispetto al ciclo economico attuale. Basti pensare che, nonostante tutto, il 2009, nella storia di Indesit, è l’anno in cui verrà lanciato sul mercato il maggior numero di nuovi prodotti”.

In chiusura, allora, come si può anticipare la ripresa?
“Senza dubbio bisogna essere flessibili, pronti, focalizzarsi sui clienti. I trend cambiano di continuo e l’innovazione di prodotto è fondamentale per poter mantenere una buona posizione sul mercato. Lavorare in sinergia con tutti i diversi settori aziendali è sicuramente utile per poter raggiungere buoni risultati in questo senso”. 
09 Feb 2009

Ricerca crisi

Anticipare la crisi

Nel campo del reale, quello che non si impara a descrivere e a misurare, resta nel campo relativo  delle opinioni  su cui si può dire tutto e il contrario di tutto.
Questo concetto tanto elementare quanto spesso disatteso, dimenticato, vale anche nel caso della crisi che stiamo dolorosamente vivendo.

Cala il Pil, non resta stabile, contrordine: crolla.

Occupazione in calo verticale, no, forse ci difendiamo: insomma  situazione grave ma non seria.

Merito della ricerca promossa e condotta da Mading, in collaborazione con il Gruppo Lombardo di AIDP, è stato il tentativo di descrivere, se non di misurare, l’effettiva portata della crisi dal punto di vista di uno degli attori chiave: le aziende.

Bisogna dare atto che, pur nella consapevole limitatezza scientifica della ricerca, basata su un campione di aziende importante, pur senza la pretesa di essere rappresentativo dell’universo mondo delle imprese, alcuni punti significativi emergono con chiarezza.

L’entità della crisi percepita, la sensazione di abbandono dei protagonisti, che pensano di dover contare solo sui propri mezzi, l’importanza percepita delle persone nelle organizzazioni, come driver importanti della ripresa e, soprattutto, l’immagine di vitalità del sistema imprese che, lungi dal piangersi addosso, sta mobilitando le proprie energie per “anticipare la ripresa”.

Cigni bianchi o cigni neri?

Da molto tempo mi sono unito alla folta schiera di quelli che (ogni tanto..) riflettono sull’antinomia “casualità/volontà”. Ossia sulla questione se la vita e suoi accadimenti siano determinati solo dal caso, dal destino, dall’ignoto, ovvero come con un’intelligente e metodica applicazione si possano raggiungere i propri obiettivi, pianificando il futuro.

Porto a me stesso prove e citazioni a sostegno e confutazione dell’una o dell’altra tesi. Per altro c’è solo l’imbarazzo della scelta.
Tra quelle che da sempre di più mi colpiscono,  l’osservazione di un capo che frequentavo agli esordi della carriera “l’importante è la culla” e il pensiero di una saggia amica e collega “lascia fare al destino”; “Faber est suae quisque fortunae” (Appio Claudio Cieco? Sallustio? Autenticità molto discussa!); “E’ vero che non sei responsabile di quello che sei, ma sei responsabile di quello che fai di ciò che sei” (Jean Paul Sartre) ….e via dottamente disquisendo.

Sono sempre più dell’avviso che, se vi sono cose che stanno al di fuori della nostra possibilità di influenzamento, è necessario però, per lo più, avere idee chiare e progetti (e soprattutto valori e principi) in grado, anche di fronte all’imprevisto, di sapere far prendere decisioni. O, come diceva meglio Calderon della Barca  “…chi vuole prevenire il danno prima che avvenga non scamperà dal danno; potrà farlo solamente se saprà mostrarsi saggio al momento in cui esso avviene: solo allora, ché cercare di impedirlo è vano sforzo”.

Questo numero della nostra newsletter si concentra, in particolare, su due eventi inaspettati, rari e prevedibili solo a posteriori, con forte impatto (seppure di peso diverso) sulle organizzazioni e le persone. Eventi, che necessitano oggi però di decisioni e scelte.

Uno è la valutazione stress lavoro correlato, che obbliga le organizzazioni e le imprese ad integrare il documento di valutazione dei rischi sulla sicurezza con il fattore relativo al rischio connesso allo stress da lavoro. Obbligo che entra in vigore da sabato 16 maggio, data già prorogata dal 31 dicembre dell’anno scorso. In realtà opinione comune è che tutti aspettassero che l’iter delle correzioni che sono state avviate al Testo Unico sulla Sicurezza, portasse un’ulteriore proroga a questo adempimento. Così non è stato e, probabilmente, poche sono oggi le aziende e le organizzazioni che hanno già provveduto a mettersi in regola. Forse anche confortati dall’assenza di linee guida chiare su come fare la valutazione stessa.
In realtà queste linee guida sono già tracciate, come la documentazione che trovate nella newsletter conferma, sia se viene fatta una attenta lettura della legge, sia se ci si rifà alle modalità suggerite in ambito europeo da Britain’s Health and Safety Commission ed European Agency for Safety and Health at Work  (che hanno una esperienza pluriennale sull’argomento) ed in Italia da Confindustria.

Parlando di innovazione nei sistemi di gestione (come è la missione di questa newsletter), è chiaro che stiamo entrando in un terreno innovativo per le aziende e le organizzazioni italiane.
Noi, sul come fare,  abbiamo preso una posizione chiara: a nostro avviso non va valutato il livello di stress di ogni singolo individuo in azienda, ma i processi organizzativi che potrebbero indurre fenomeni di stress. L’incertezza su come agire, dunque, può essere facilmente superata adottando un approccio pragmatico e centrato sulle prassi organizzative e operative.

Il secondo evento è naturalmente costituito dal perdurare (dall’aggravarsi?) della crisi economica, con tutte le sue ripercussioni sulla gestione del personale.
Anche qui assistiamo ai comportamenti più disparati. Innanzitutto, come diceva l’economista Hyman Minsky, la stabilità e l’assenza di crisi incoraggiano a correre rischi; poi arriva la crisi, si rimane traumatizzati e si teme di fare nuove investimenti. Così, nel generale rallentamento degli acquisti di molti beni, le aziende sono state chiamate a gestire i rallentamenti produttivi e la necessità di conseguenti tagli dei costi. Naturalmente questo ha particolarmente inciso sul personale.
La ricerca Mading/Aidp, che trovate nella newsletter, ha provato a dare uno spaccato delle strategie messe in atto dalle aziende per rispondere al problema. Spiccano, naturalmente, le risposte più tradizionali. Abbiamo però anche registrato modalità più innovative di fronteggiare l’imprevisto. Modalità che hanno cercato di evitare di scaricare totalmente sulle persone gli impatti economici, guardando al futuro e alla difesa del “capitale umano”.

D’altro canto questo è probabilmente il futuro che ci aspetta: se ha ragione Nassim Taleb stiamo uscendo dall’era del Mediocristan per entrare in quella dell’Estremistan.  Un’epoca in cui il mondo sarà sempre meno lineare e prevedibile, che non cammina ma salta, in cui saper tollerare l’incertezza ed essere innovativi saranno virtù necessarie ed obbligate.

L’esperienza di Kraft

 Intervista a Ivan Mazzei, Direttore Risorse Umane di Kraft Foods Italia. 

 Dottor Mazzei si parla molto di innovazione nei processi organizzativi in questi ultimi tempi, indicandola come una delle vie più importanti per uscire da un periodo difficile per molti settori economici. Cosa significa innovazione nella organizzazione e nella gestione risorse umane per una realtà come Kraft *?
“Credo che significhi due cose. Da una parte introdurre nuovi strumenti e/o adeguare quelli esistenti ad un quadro di riferimento in continuo mutamento, dall’altra creare degli ambienti di lavoro che favoriscano l’innovazione in senso lato. Sono due aspetti diversi ma necessari e complementari. Partirei dal secondo, dato che la cosa più importante per una direzione HR e’ rimanere collegata all’organizzazione cui appartiene. Il tema del favorire la creazione ed il mantenimento di un ambiente di lavoro che supporti l’innovazione è sicuramente un tema affascinante e complesso al tempo stesso. Non esiste infatti una ricetta magica, anche perchè altrimenti tutti la applicherebbero. Ogni organizzazione affronta l’argomento in maniera diversa: in Kraft abbiamo lavorato su diversità ed informalità. Diversità intesa come possibilità di impollinazione reciproca tra persone con caratteristiche e percorsi professionali diversi. L’informalità e’ invece più legata alle condizioni di lavoro, al come ci si relaziona gli uni con gli altri. Dato che sempre più le modalità di lavoro impediscono una cesura netta tra tempi di lavoro e tempi privati. Per noi è importante rendere i primi il più piacevole possibile”.
  

In concreto questo cosa significa?

“Ecco chiarito il contesto di fondo possiamo ora entrare nella parte più HR. Diversità significa per esempio favorire percorsi professionali non prettamente mono-funzionali ed arricchirli con esperienze internazionali. In contesti lavorativi che si sviluppano sempre più attraverso la ricerca di eccellenze funzionali. E’ fondamentale avere delle persone che abbiano la capacità di mantenere una visione il più ampia possibile, vale a dire persone  capaci di fare dei trade-off, ossia di capire che la soluzione migliore per l’organizzazione può non essere quella migliore per la funzione cui loro appartengono. L’esperienza internazionale e’ un altro tassello fondamentale per un’azienda multinazionale. Serve a sviluppare la capacità di dialogare all’interno di modelli culturali diversi da quelli di origine.
Il focus sull’informalità e’ invece raggiunto attraverso un’attenzione continua alla qualità delle relazioni, all’ambiente di lavoro. Da diversi anni per esempio ci siamo focalizzati sempre più sullo sviluppo di servizi per i dipendenti: dallo sportello bancario alla lavanderia, dal take-away al bar, dalle convenzioni con variegati servizi esterni all’introduzione di un orario flessibile, allo sviluppo di contratti part-time. Gli esempi sono veramente tanti ma l’obiettivo alla base e’ lo stesso: dare la possibilità alle persone di sfruttare al meglio il loro tempo privato liberandolo da una serie di incombenze. Torniamo sul tema della contiguità tra lavoro e privato.   
Un’altra area in cui abbiamo sicuramente cambiato nel tempo il nostro approccio, è il rapporto dipendente-azienda. Se in passato le organizzazioni definivano unilateralmente i percorsi di carriera delle persone, oggi in Kraft lavoriamo su questi temi a 6 mani: la funzione HR, il capo ma soprattutto il dipendente. Chiediamo ad ogni persona di ragionare sul proprio percorso di sviluppo in maniera tale da essere più consapevole del proprio futuro professionale. Non si tratta d’altro canto di lasciare la responsabilità dello sviluppo alla sola persona ma di renderla più consapevole delle sue possibilità e responsabilità. Il rapporto azienda-dipendente si fa’ più maturo nel senso che non è più unilaterale. Le conseguenze di questo approccio sono molteplici. Da parte dell’organizzazione richiede una maggiore trasparenza sui processi e gli strumenti di gestione del personale, da parte del dipendente un’assunzione di responsabilità crescente che definiamo self-empowerment.   
Questo approccio prevede come obiettivo anche quello di aumentare la leadership nell’organizzazione: quello che noi internamente chiamiamo leadership diffusa. Nelle organizzazioni internazionali in cui si sviluppano sempre più modelli matriciali di relazione non e’ più pensabile fare coincidere il concetto di leader con il concetto di capo tradizionale. Ognuno, a secondo del momento, può dover agire da leader. Ecco allora che e’ compito di una Direzione HR, che si voglia innovativa, lavorare su questi temi.    
Per quanto riguarda più nel dettaglio la strumentazione, lo sviluppo, per esempio, di una carriera internazionale richiede di rivedere i percorsi interni di selezione, di gestione, per adeguarli alle nostre esigenze di business. Al tempo stesso una direzione HR al passo con i tempi si trova oggi a confrontarsi con temi un tempo non conosciuti quali l’Employer Branding. Oggi le aziende sono all’interno del mercato del lavoro un prodotto come tanti altri. Cosa differenzia Kraft da un’altra organizzazione ? Perchè un neolaureato dovrebbe scegliere noi piuttosto che la concorrenza ? Ecco l’Employer Branding cerca di lavorare su questo terreno”.    
  
Ci sono stati anche esempi di innovazione che non hanno funzionato ?
“Sicuramente. Anche perchè penso che l’innovazione passi anche attraverso il fallimento. Pensare che si possa innovare senza alcun rischio e/o pericolo e’ pura utopia. Tra l’altro la paura di fallire e’ spesso un freno all’innovazione. Tornando all’esempio dei servizi al personale ci e’ capitato di lanciare servizi che non incontravano l’interesse delle persone. Questo ci ha permesso di sviluppare un’offerta credibile e sostenibile nel tempo”.
  
Quanto questi temi sono esportabili in altre organizzazioni ?
“Naturalmente non credo che i temi su cui sta lavorando Kraft possano essere applicati automaticamente in tutte le organizzazioni. Come dicevo all’inizio, le Direzioni HR non possono prescindere dall’organizzazione in cui vivono e dal business che supportano. Il tipo di prodotto, la dimensione geografica (multinazionale verso locale), la struttura organizzativa (a matrice verso tradizionale) sono alcuni elementi che fortemente impattano questi ragionamenti.
Quello su cui tutte le Direzioni HR hanno quindi il dovere di lavorare e’ la comprensione del business che supportano, le strategie di medio-lungo e come questo si possa poi declinare nella gestione del capitale umano. Forse la prima innovazione per una Direzione HR e’ quella di sentirsi una “line” e non una “staff” come troppo spesso accade, atteggiamento che poi conduce a voler fare cose “belle” ma non sempre utili. Ecco perchè credo che il tema dell’innovazione nella gestione HR sia per certi versi un falso problema. Il vero punto e’ l’innovazione “tout court”.    
  
Quali sono stati i progetti più innovativi nelle realtà internazionali Kraft che Lei ha conosciuto ?
“E’ difficile in un’intervista descrivere i progetti perchè spesso l’innovazione sta più nelle modalità di implementazione che non nel progetto in se’. L’esperienza europea mi ha portato a confrontarmi con sensibilità diverse. Per esempio nell’area Scandinava da molti anni ormai si lavora su tematiche relative al benessere in azienda, in Francia si e’ molto avanzati sul tema della formazione continua. In Europa il contesto normativo di riferimento e la cultura nazionale giocano un ruolo importante nell’ambito però di una cultura di Gruppo tendenzialmente omogeneo. Da questo punto di vista l’esperienza statunitense mi ha portato a confrontarmi con un modello diverso: outsourcing della parte più amministrativa della funzione, trasferimento di diverse responsabilità sul management e di conseguenza rifocalizzazione della Direzione HR su tematiche più strategiche. Ho personalmente trovato molto interessanti e stimolanti temi quali la Leadership, la Diversity, il Mentoring, il Change Management, la Corporate Social Responsibility ”.
  
Trovo curioso che citi tra i progetti HR il Corporate Social Responsibility che avrei considerato piu’ una tematica di Corporate Affaire…
“Da un certo punto di vista ha assolutamente ragione ed infatti su queste tematiche lavoriamo in stretta collaborazione con i colleghi di Corporate Affairs. Dall’altra parte e’ limitativo interpretare queste iniziative solo come attività di comunicazione esterna. Recentemente come Kraft Italia abbiamo sostenuto un’associazione dando la possibilità ai dipendenti di partecipare all’iniziativa. Il risultato e’ stato per certi versi inatteso: circa il 22% dei colleghi hanno in forme diverse supportato l’evento. In questo caso il ruolo della Direzione HR si esplicita nel mettere a disposizione dei dipendenti una piattaforma che individualmente non avrebbero”.

Nel futuro, a  suo parere, quali dovranno essere le innovazioni più significative nella gestione delle risorse umane?
“Tutti gli strumenti tradizionali della Direzione HR devono continuamente essere rivisitati per adeguarli ad una realtà in continuo mutamento. In generale le Direzioni del Personale devono diventare sempre meno focalizzate sulle transazioni amministrative e sempre piu’ su tematiche di Change Management e di supporto del Management. La conoscenza del business per tutta la funzione HR e’ un tema imprescindibile.
Dal punto di vista più operativo penso che la comunicazione stia diventando un terreno centrale. Una società sempre più globale e quindi interconnessa sta sviluppando strumenti sempre più sofisticati. Il tema del Social Network credo sia un esempio interessante. Le persone hanno sempre più bisogno di collegarsi, scambiarsi informazioni in un modo non sempre formale e tradizionale. Sempre più persone fanno parte di Network in rete: Facebook, Linkedin, Myspace, Youtube. Le organizzazioni non possono non tenerne conto. In tutto il mondo Kraft per esempio stiamo dando la possibilità ai colleghi, attraverso un sistema aperto ai dipendenti, di partecipare alla definizione dell’identità aziendale. Ognuno può contribuire con le proprie considerazioni. Il livello di partecipazione e’ stato molto alto ed inaspettato secondo i parametri tradizionali.
Ancora, sempre sul terreno della comunicazione/relazione, da poche settimane a livello globale e’ stato lanciato il progetto “The Mix”. Si tratta di un’area in rete in cui ognuno puo’ fare domande, condividere idee, collaborare con colleghi di varie funzioni ed aree geografiche utilizzando l’approccio del know-how sharing e del blog. Siamo solo all’inizio ma e’ chiaro l’impatto che questo cambiamento può avere a cascata sulle strutture organizzative, i processi selettivi, formativi, di sviluppo”.   

 Cos’è KRAFT FOODS INC.
Kraft è uno dei più grandi gruppi alimentari a livello mondiale, con un fatturato annuo di oltre 37 miliardi di USD. Da oltre cento anni Kraft offre ai consumatori alimenti sani e gustosi in linea con il loro stile di vita. Kraft gestisce un ampio portafoglio di marchi primari in oltre 150 paesi, inclusi nove brand con fatturati superiori al miliardo di dollari, come formaggi, piatti pronti e salse Kraft; i prodotti a base di carne Oscar Mayer; il caffè Maxwell House, il formaggio cremoso Philadelphia; i biscotti e i crackers Nabisco e il marchio Oreo; il caffè Jacobs, il cioccolato Milka e i biscotti LU. Dal 30 marzo 2007 Kraft è una società completamente indipendente ed è inclusa nell’indice Standard e Poor  500. La società è anche inclusa nel Dow Jones Sustainability Index e nell’Ethibel Sustainability Index. Per ulteriori informazioni si invita a visitare il sito aziendale www.kraft.com.

In Italia, Kraft a fine 2007 impiegava circa 960 addetti diretti con un fatturato di 646 milioni di Euro. Oltre alla sede di Milano, possiede stabilimenti di produzione ad Andezeno, Aprilia e Caramagna. L’azienda italiana produce e commercializza prodotti di alta qualità e successo nelle categorie: formaggi, piatti pronti, caffè, snack (cioccolato) e salse, con marchi come Kraft, Sottilette®, Philadelphia, Simmenthal, Milka, Splendid, Hag e Fattorie Osella.


L’esperienza della Provincia di Belluno
  
Tra la fine del 2004 e l’inizio del 2005 l‘Amministrazione Provinciale di Belluno, in linea con  quanto espressamente previsto nel programma di mandato, ha attivato una serie di azioni dirette a rivisitare profondamente gli strumenti di programmazione e budgeting, innanzitutto costituendo il servizio “Controllo di Gestione” con l’assegnazione di due unità di personale, individuando una rete di “controller” diffusa nelle diverse unità organizzative e quindi avviando un percorso formativo strutturato che ha coinvolto amministratori, dirigenti e funzionari di tutti i settori.

La nuova impostazione dei documenti, che è stata applicata a partire dall’esercizio 2006, ha avuto tra i suoi obiettivi quello di costituire un quadro omogeneo e coerente dei documenti di pianificazione e programmazione, disponendosi in un processo a cascata che parte dalle linee programmatiche, prosegue con la relazione previsionale e programmatica (RPP) e si concretizza dal punto di vista gestionale, nel piano esecutivo di gestione/piano degli obiettivi (PEG/PDO).

Si è ritenuto, inoltre, di operare per semplificare e snellire la RPP, per rendere i documenti più chiari e leggibili e costruire un PEG/PDO con obiettivi definiti ed indicatori misurabili. Il tutto è stato completato con la predisposizione di nuovi schemi di monitoraggio e di aggiornamento degli obiettivi in occasione delle verifiche periodiche e delle variazioni di bilancio.
A supporto del nuovo processo di programmazione e controllo l’ente si è dotato, da gennaio 2008, di un sistema informativo di supporto al fine di facilitare la compilazione, l’aggiornamento e la rendicontazione dei documenti di programmazione e gestione, di supportare i settori nella fase di elaborazione dei dati e di rendere immediatamente disponibili le informazioni e quindi velocizzare il processo decisionale. Il sistema si alimenta automaticamente attraverso collegamenti diretti agli applicativi di base.
Parallelamente è sembrato quasi naturale avviare un riallineamento del sistema di valutazione delle prestazioni del personale dell’ente, anche al fine di sfruttare le potenziali ricadute positive date dalla contemporanea implementazione di un sistema di gestione fortemente orientato alla verifica del raggiungimento di obiettivi prefissati.

Il risultato e la performance di un’organizzazione, specie di un’organizzazione che produce servizi quale è fondamentalmente un ente locale, dipendono in maniera decisiva dal livello di prestazione delle persone che in essa lavorano. Molteplici possono essere le possibili cause di un soddisfacente o insoddisfacente livello di prestazione del personale.
Ad esempio, il personale può essere competente ed avere una motivazione adeguata, ma non avere le risorse necessarie (tempo, mezzi, strumenti, denaro). Oppure: il personale è competente ed ha risorse adeguate, ma non è sufficientemente motivato. O ancora, il personale è motivato, ha le risorse, ma non le competenze.                                          
In ogni caso, se la prestazione finale è inadeguata, l’organizzazione deve intervenire. Se è adeguata, deve preoccuparsi di utilizzare le leve adatte a mantenerla tale o a migliorarla ulteriormente. Obiettivo fondamentale per qualunque organizzazione è, quindi, arrivare al costante miglioramento della prestazione di lavoro, agendo sui tre fronti delle competenze, della motivazione e delle risorse attribuite al personale, nella consapevolezza che non esistono scorciatoie né meccanismi semplici da attivare. I sistemi di valutazione devono considerare non solo i risultati della prestazione (“il cosa”), ma anche i comportamenti organizzativi (ossia “il come”).
La dirigenza deve comprendere che una prestazione si poggia sull’armonico equilibrio di diverse variabili, che vanno costantemente monitorate e gestite per avere prestazioni soddisfacenti. L’atto della valutazione è il momento cruciale di comprensione delle motivazioni individuali, di indirizzo e chiarimento delle attese della organizzazione nei confronti dei compiti che l’individuo svolge, di esercizio della equità organizzativa.
Una buona capacità di valutazione delle persone e di gestione degli strumenti e delle procedure che l’organizzazione mette a disposizione deve essere una delle competenze di base della dirigenza e dei quadri. Tali considerazioni, che sono naturali – quasi ovvie – in quasi tutte le organizzazioni, debbono essere con forza ribadite anche negli enti pubblici, dove sistemi di valutazione obbligatori per norma contrattuale o di legge trovano spesso applicazioni formali e di facciata, senza giungere a rappresentare effettive leve di miglioramento gestionale.

L’Amministrazione Provinciale di Belluno, dicevo, ha fatto la scelta, nel corso del 2007, di rivisitare in maniera sostanziale il sistema di valutazione del personale dell’ente, collegandolo in modo coerente con il nuovo sistema di direzione per obiettivi implementato a partire dal 2006. 
Infatti, nell’ambito di un sistema di valutazione strettamente legato ad una gestione per obiettivi, il dipendente/collaboratore è in grado di orientarsi con certezza verso gli obiettivi desiderati dall’ente/azienda, percepisce di essere valutato in base a parametri oggettivi e definiti, è condotto a riconoscere gli insuccessi, obiettivamente evidenziati, ed a riflettere sulle loro cause ed è fondamentale per l’apertura della comunicazione capo/collaboratore.
E’ stato quindi avviato un programma di formazione e supporto allo sviluppo e potenziamento delle competenze manageriali, di valutazione del personale rivolto ai ruoli gestionali interni. L’attività è stata finalizzata ad intervenire:
1. sulla elaborazione di un modello più articolato di valutazione dei dirigenti;
2. sulla rivisitazione del modello e processo di valutazione in atto relativo al personale delle categorie, strutturando un nuovo processo e predisponendo una nuova scheda di valutazione.
L’obiettivo è stato quello di condividere con i principali attori del processo l’utilità di porre mano allo stesso, di creare consapevolezza sulle potenzialità come anche sulle difficoltà e limiti della valutazione e sui meccanismi psicologici che coinvolgono valutatore e valutato. Si è quindi lavorato insieme per definire il processo e gli strumenti, per evitare che questi fossero calati dall’alto. Sono state condotte alcune riunioni plenarie in cui il lavoro svolto è stato presentato a tutti i dipendenti, raccogliendo osservazioni, domande, commenti.

All’inizio del 2008, una volta definiti gli obiettivi da assegnare ai singoli dirigenti, è stata consegnata la scheda individuale (Direttore Generale ai Dirigenti, Dirigenti ai Capi Servizio e Capi Servizio alle altre posizioni) attraverso colloqui individuali. Nei colloqui sono stati illustrati al singolo gli obiettivi dell’anno e gli eventuali suoi obiettivi individuali. I Dirigenti e i Capi Servizio hanno, nelle schede, obiettivi di: Organizzazione Interna, Gestione Risorse Umane, Servizio clienti interni/esterni, Competenze Tecniche e Manageriali.
Le valutazioni vengono fatte dai Capi Servizio in autonomia, le schede vengono però validate dal Dirigente, mentre le schede dipendente sono firmate congiuntamente dal Capo Servizio e dal Dirigente.
Il processo di valutazione comporta, quindi, che dopo un semestre debba essere condotto un colloquio individuale di verifica intermedia che ha l’obiettivo sia di recepire le eventuali variazioni sugli obiettivi (spesso derivanti dalle variazioni sul PEG) sia di segnalare alle persone eventuali miglioramenti di comportamenti. Tutte le schede riportano una sezione “Aree di miglioramento da evidenziare” e “Azioni gestionali suggerite”. Il sistema di attribuzione dei punteggi per le categorie D, C, B, A, sono stati espressi in fasce (A, B, C, D, E, F, G) e non più in centesimi (A= Competenza non rilevabile o non presente , G= Aspettative e risultati attesi superati oltre le aspettative).
Per gli operatori non appartenenti alla categoria dirigenziale è possibile, quindi, far corrispondere le diverse percentuali di riconoscimento della produttività individuale a ciascuna delle fasce sino alla F, riservando alla G una quota aggiuntiva finanziaria, mentre uno specifico spazio consente al valutato di esprimere un giudizio sulla valutazione effettuata.
A fine esercizio la valutazione individuale è in grado di recepire sia il raggiungimento degli obiettivi, sia le indicazioni sui comportamenti operativi e le evidenziazioni di aree di miglioramento e/o possibili azioni gestionali.

In prospettiva, anche dopo la verifica di come si sarà concretamente attuato il processo nel corso del 2008, si pensa di lavorare ad un “Manuale di Gestione” e di automatizzare il processo. La prima azione permetterebbe di migliorare l’uniformità delle valutazioni e fornire un riferimento univoco per tutti gli attori coinvolti nel processo di valutazione. La seconda azione consentirebbe di avere le schede di valutazione in formato elettronico con il vantaggio di ridurre i tempi necessari alla compilazione, ridurre gli errori nella compilazione stessa ed eseguire automaticamente le necessarie somme e conversioni.
Investire tempo ed energie nel sistema di valutazione significa investire nel futuro dell’organizzazione. Nell’ambito delle organizzazioni pubbliche ciò è tanto più vero in un periodo in cui tornano d’attualità i temi dell’efficienza, dell’efficacia e dell’economicità dell’azione pubblica.

’Universita’ del Caffe’: innovazione  e  formazione completa



Per diffondere in tutto il mondo la cultura del caffè di qualità Illycaffè (oltre 700 dipendenti a livello globale e un fatturato consolidato nel 2007 di 270 milioni di euro) ha creato a Trieste l’Università del Caffè(Udc), un centro eccellenza e di formazione che offre agli operatori del settore una preparazione teorica e pratica completa su tutte le tematiche attinenti al caffè. Una Corporate University a tutti gli effetti, nata in modo pionieristico a Napoli nel 1999 cui ha fatto seguito, con il trasferimento nella sede aziendale di Trieste e la creazione di una struttura di formazione, una fase di sviluppo intorno al 2000. Un ulteriore momento di crescita si è verificato nel 2006  (che ha avviato lo sviluppo attuale) con l’organizzazione di nuove aree di formazione.

Roberto Morelli in Illy  è il direttore della Cultura del Caffè  e dell’Università del Caffè. 
  
Dottor Morelli a chi si rivolge la vostra formazione?

“L’attività tradizionale dell’Udc, quella che se fossimo un soggetto profit definirei core business, è la formazione dei professionisti del caffè, quindi baristi, albergatori e ristoratori, il canale HoReCa per intenderci. A questo target, di recente, ne abbiamo aggiunti due nuovi: la formazione dei produttori di caffè e la formazione dei consumatori, vale a dire semplici appassionati di questa bevanda. Per quest’ultimo target cerchiamo di ripercorrere il cammino compiuto dal vino nei confronti dei sommelier non professionisti.

Ai professionisti che lavorano nei locali offriamo le migliori opportunità di formazione e aggiornamento sul caffè, ma anche sulla gestione e promozione del bar. Insegniamo ai produttori come ottenere il meglio dalla natura, senza dimenticare le regole per l’organizzazione della piantagione e incuriosiamo gli appassionati con serate di degustazione e cene a tema caffè. E questo lo facciamo in Italia e in numerosi altre parti del mondo. Delle 3 sede all’estero nel 2007 siamo passati alle 14 nel 2008 in Paesi come Brasile, Colombia, Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia, Germania, Olanda, Croazia, Egitto, Cina, Corea del Sud, India, Grecia e Turchia.
In alcune di queste sedi, la formazione è rivolta prevalentemente ai produttori. E’ il caso di Brasile, India e Colombia. In altre invece la formazione è diretta ai professionisti. In sostanza questo rientra nella strategia di espansione globale dell’azienda. E’ un modello d’internazionalizzazione del tutto nuovo. Non spostiamo la produzione, ma trasferiamo le conoscenze utili ad apprezzare il prodotto italiano. “Delocalizziamo” la cultura, non stabilimenti, consapevoli che un mercato può dirsi tale solo se è in grado di valutare un prodotto.
In Italia uno dei nostri partner è l’Università Bocconi con la quale organizziamo la formazione dei nostri docenti, soggetta a un costante monitoraggio. L’ambiente didattico nel quale si svolgono le lezioni è molto innovativo e dotato delle più moderne tecnologie multimediali e interattive. Poi, naturalmente, vi è molta attività pratica. Quindi con le macchine, i tavolini, la degustazione. Siapprende anche facendo”.

 Qualche numero?
Lo scorso anno abbiamo formato (certificati) circa 7700 persone e abbiamo già superato quota 10 mila nel 2008. In totale dal 1999 ad oggi il numero delle persone formate è di circa 27 mila”.

 In grandissima parte il caffè lo si produce in Paesi diversi da quelli in cui lo si beve. L’unico Paese che fa eccezione è il Brasile. Qui lo si coltiva e lo si beve, con un tasso di consumo pro-capite che è assimilabile a quello italiano.  Per il resto del mondo le zone di coltivazione sono diverse dalle zone di torrefazione e di consumo…
“In questi Paesi noi svolgiamo attività di formazione. Fa parte della filosofia aziendale di Illycaffè: vale a dire quella di lavorare direttamente con i produttori sul campo, scavalcando ogni intermediazione. Nelle nostre procedure di acquisto non utilizziamo broker, non utilizziamo mediatori, non andiamo sulla borsa del caffé a comprare il prodotto, ma lo comperiamo direttamente dai produttori. E quindi, prima di comprarlo, formiamo i produttori (con lezioni che vanno dalla chimica alla biologia del caffè per arrivare al management d’impresa) in modo tale da garantire loro la possibilità di ottenere un reddito più alto. Una maggior qualità si traduce in un prezzo più alto che loro possono praticare e per noi in un caffè di livello desiderato. In questo senso abbiamo avviato corsi per i produttori con la facoltà di economia e commercio di San Paolo, in Brasile. Oggi l’Università del caffè del Brasile è un punto fermo nella formazione per i coltivatori e i produttori. E di recente una nuova storia è cominciata anche in India, a Bangalore, e in Colombia”.

 Cosa succede invece con il target professionisti?
 “In questo caso l’attività di formazione dell’Udc si concentra su 14 corsi in materia caffè. Si tratta di una serie di lezioni in cui si illustra, si racconta il caffè dalla pianta alla tazzina, quindi dalla coltivazione al consumo finale, di durata variabile tra la singola giornata e le 5 giornate full time. A questi si aggiungono tre corsi di materia gestionale, di business management: “Il bar che conta”, centrato sulla gestione e pianificazione economico finanziaria.  “Il bar che conquista” rivolto invece alla gestione del personale, formazione e comunicazione, e “Il bar in vetrina” in cui vengono spiegate le tecniche di allestimento e immagine. Infine vanno aggiunti corsi  più tecnici, e altri dedicati alla nostra catena in franchising. E’ il caso di “Espressamente Illy” (che unisce anche elementi di food), altri dedicati al singolo prodotto (cappuccino, espresso e così via) e altri ancora dedicati alle varie combinazioni del caffè. Oltre a corsi mirati sulla conoscenza scientifica del caffè e della caffeina, come quello su “Caffè e salute”.

I consumatori. Terza catena dei destinatari della formazione. Come li coinvolgete?
“Per gli estimatori del caffè organizziamo corsi che vanno dalla durata di due ore a corsi strutturati in più giornate, a scadenze fisse, per esempio il primo martedì del mese, in varie città italiane ed europee. Sono lezioni mirate a formare dei consumatori più consapevoli. Consapevoli non del nostro prodotto, ma del gusto, della qualità che un caffè può offrire. Per una azienda come la nostra, che punta al cento per cento sulla qualità, è molto importante diffondere a livello culturale questa percezione. Un consumatore che ritiene che un caffè valga l’altro non è un consumatore a nostro avviso sufficientemente “formato”. Per questo cerchiamo di fornirgli strumenti utili perché impari a riconoscere un caffè di qualità. Questo tipo di corsi, oltre all’Italia, si stanno sviluppando anche in Europa”.
  
L’Università del Caffè è uno strumento di formazione di un target prevalentemente esterno. La utilizzate anche per la formazione interna?
“E’ chiaro che l’Udc è uno strumento di comunicazione esterna, ma va detto che anche le persone dell’azienda seguono i corsi. Con una periodica verifica. Soprattutto per la forza di vendita (in Italia sono circa 150 persone) l’offerta formativa dell’Università è uno strumento di informazione, di comunicazione, di sensibilizzazione nei confronti dei clienti. Dal 2007, per la rete interna, abbiamo rafforzato molto questo programma di educazione permanente”.
  
Il vostro è un progetto educativo a livello globale…
“E’ un progetto incardinato sulla conoscenza anziché sull’addestramento tecnico-pratico. Nel nostro caso è un’attività che ha una caratteristica di “autonomia” particolare, tanto è vero che è coronata da una produzione editoriale multimediale, piuttosto intensa. Pubblichiamo manuali, libri, cd, adesso abbiamo appena lanciato un corso a distanza con un cofanetto multimediale. E nello svolgimento di questi progetti stiamo stringendo partnership accademiche molto importanti. Per capirci: la sede dell’Università del Caffè del Brasile è nell’Università di San Paolo. L’Università del Caffè della Corea del Sud ha una collaborazione importante con l’Università di Seul. Abbiamo appena stretto un progetto di ricerca per l’individuazione del modello ideale di coltivazione del caffè con l’Università di Oxford. E poi con importanti scuole di cucina: in Italia con Alma, il più autorevole Centro di Formazione della Cucina Italiana a livello internazionale e negli Stati Uniti i corsi si svolgono in collaborazione con l’International Culinary Center di New York. E’ nei nostri obiettivi ricercare lepartnership più autorevoli. In alcuni Paesi, come ad esempio in Francia,  siamo accreditati dallo stato francese per la formazione su tutto il territorio nazionale”.

26 Gen 2009

Risorse umane

Le risorse umane, un fattore chiave per il successo

Quando i managers parlano, discutono o scrivono di Risorse Umane il rischio che spesso corrono e’ quello di scivolare nell’ambito tranquillo e soporifero dei  luoghi comuni,  magari conditi da  slogan  come: “Le risorse umane rappresentano il nostro più importante asset” o “Siamo una società di Persone” o ancora  “We care about our People”. L’esperienza  però mi ha insegnato che i managers si trovano spesso a disagio nell’affrontare questo tema, perché a dispetto delle  frasi sopra citate, le persone non rappresentano una priorità nella loro agenda.


Talvolta questo accade per via dei deficit culturali presenti nel loro sviluppo manageriale. Ma molto più spesso il vero problema risiede nel fatto che dedicarsi alle persone e alla loro formazione è faticoso e richiede molte energie. Il business però è spietato. Quando un fattore chiave per il successo, come quello delle risorse umane è gestito con qualunquismo il conto da pagare è spesso molto salato.

Il famoso triangolo (figura geometrica stabile per antonomasia) che fissa con lungimirante semplicità i tre pillars dell’attività di un manager

  1. definire una strategia
  2. scegliere una coerente struttura organizzativa 
  3. scegliere e sviluppare le persone che dovranno fare funzionare il sistema), 

viene spesso destabilizzato  da una scarsa attenzione alla dimensione che riguarda le persone all’interno della struttura..


Molti managers, infatti, per incompetenza o per disinteresse ritengono maggiormente efficace delegare integralmente la gestione delle persone alla funzione “Risorse Umane” o all’HR Partner di turno. Questo  atteggiamento ha un  impatto fortemente negativo  all’interno delle dinamiche aziendali. Raramente  in uno “strategic business plan” si trovano analisi approfondite dei bisogni relativi alle risorse umane e talvolta il capitolo HR è totalmente assente.

La stessa cosa avviene quando si analizzano le cause dei fallimenti: molti cercano la spiegazione del loro insuccesso sempre in ambito operativo, perché è lì che risiede la loro attività ordinaria ed è da lì che quotidianamente muovono le leve per raggiungere gli obiettivi prefissati. Purtroppo, anche in quest’ambito, la variabile “persone” viene spesso trascurata, proprio perché è un’area difficile e poco conosciuta dalla maggior parte della classe manageriale. Gestire questo terzo pillar del triangolo richiede competenza, passione, interesse per il capitale umano, impegno, studio e approfondimento anche teorico delle tematiche relative alle persone.

Il manager è il vero responsabile delle risorse umane, per cui deve conoscere in profondità i processi che stanno alla base del sistema (processi di assunzione, performance appraisal, grading, analisi delle competenze, gestione dei talenti, definizione dei percorsi di carrriera, formazione, processi di mentoring, gestione degli expats etc.) e deve essere lui e la struttura del management  a gestire l’intero processo di valorizzazione del capitale umano. In questo ambito, non c’è delega che tenga. Serve un impegno costante , una seria e approfondita  attenzione all’analisi dei risultati e chiare decisioni.

Un atteggiamento proattivo in questo senso favorisce la meritocrazia nei processi interni, favorisce l’individuazione dei talenti e rende difficile la formazione di sottoculture all’interno della struttura. Questo  ultimo punto  e’ molto  pericoloso. Se non identificato per tempo, le sub-culture rischiano di  soppiantare la cultura ufficiale che l’azienda vuole instaurare, con impatti negativi ed enormi sul business.

Nel corso della mia carriera professionale ho vissuto l’esperienza di una business unit non propriamente florida e i cui addetti nella performance appraisal, rientravano per il 90 % all’interno del ranking “very high performance”. L’unita’ produceva scarsi risultati ma la maggior parte dei  collaboratori venivano  classificati come superstar! Certamente qualcosa non stava funzionando. Il management, infatti,  considerava il sistema di performance appraisal un fatto burocratico, la cultura del feed-back qualcosa da bypassare, il tutto penalizzando la cultura meritocratica che avrei voluto creare. Cambiai la maggior parte del management. Questo mi servì a lanciare un messaggio importante: la  performance appraisal è una cosa seria, sulla quale, azienda e sottoscritto riponevano forti aspettative e non erano disponibili ad accettare compromessi.

Essere intransigenti nell’attuazione di questi processi è fondamentale per il buon andamento del business. Solo così facendo si definiscono in modo professionale i collegamenti fra l’andamento aziendale e quello dei collaboratori oltre a gettare le basi per un chiaro processo decisionale in ambito risorse umane. In questo modo si riduce il rischio che la  meritocrazia  non venga premiata, che i clan e le cordate interne prendano il sopravvento, che i talenti non vengano scoperti e valorizzati e che le sottoculture soppiantino la cultura aziendale che si vuole ufficialmente  promuovere.

Sono fermamente convinto che, qualora le persone non siano adeguatamente incentivate, motivate, stimolate e valutate, alla fine a soffrirne sia in realtà il business e dunque l’intera struttura aziendale. La peggior situazione che un general manager si possa trovare a dover fronteggiare.

Quali proposte?
La chiave è quindi porre in essere dei processi che consentano di guidare verso la direzione desiderata, consapevoli che questi sono solo uno strumento per ottenere i risultati sperati. Il manager  deve gestirli stando ben attento a non farsi gestire, come spesso avviene.

Con questo non penso alla funzione Risorse Umane come ad una semplice appendice del management di linea. Anzi, al  contrario, le Risorse Umane per svolgere il loro ruolo debbono far parte integrante del business e del suo processo decisionale. Possiamo paragonarle alla funzione dell’olio di un motore: senza di esso tutto si bloccherebbe in poco tempo. Inoltre occorre mostrare passione verso le persone. Non significa essere “buoni” ma capire e far loro capire che sono “il vero motore dell’azienda”.

Essere presenti personalmente, essere disponibili ad incontrare, a sfidare e anche a farsi sfidare. Questo richiede che il manager si apra, diventi trasparente e leggibile nei confronti dei suoi collaboratori i quali, ovviamente, potranno scoprire anche alcune sue debolezze.

Ai manager ”tutti di un pezzo” questo non piace, la loro immagine (ma quale immagine?) ne risulterebbe ammaccata. Meglio quindi tenere le distanze, ritornare in ufficio e consultare le statistiche dei processi e sognare che tutto sia sotto controllo.
21 Gen 2009

Meritocrazia

“Quattro proposte concrete per dare slancio al nostro paese”


Roger Abravanel, nato in Libia ma di nazionalità italiana, ingegnere esperto di business administration, è stato per diversi anni ai vertici di McKinsey, la prima società di consulenza strategica al mondo, occupandosi di aziende italiane e multinazionali in Europa, America ed Estremo Oriente. Ha da poco pubblicato un libro “Meritocrazia, 4 proposte concrete per valorizzare il talento e rendere il nostro Paese più ricco e più giusto”, prefazione di Francesco Giavazzi (Garzanti Editore), con un obbiettivo ambizioso: proporre un approccio e soluzioni concrete per poter rafforzare la cultura del merito nella nostra società.


Ingegnere Abravanel perché questo libro?
“La ragione è molto semplice. Fondamentalmente avendo girato il mondo, negli anni mi sono reso conto che non ci meritiamo le classifiche che ci collocano sempre agli ultimi posti. Mi sono posto allora la domanda se l’esperienza che avevo avuto negli ambiti aziendali (vale a dire quello che faceva la differenza, era la classe dirigente), potesse essere applicato a tutta la società. Ho fatto due anni di ricerca in vari Paesi del mondo, mi sono documentato molto, alla fine mi sono convinto che è proprio così”.

E quindi la meritocrazia alla fine cos’è?
“Meritocrazia vuol dire che i migliori salgono, indipendentemente dalla loro provenienza, dove per provenienza s’intende una etnia, un partito politico, ma in Italia soprattutto la famiglia e i rapporti, il nome che si porta. Il tema è assolutamente cruciale per il nostro Paese. In alcune società meritocratiche, tipo quella americana o quella scandinava, dalle quali noi non abbiamo nulla da imparare, sono molto bravi a prendere una persona e, indipendentemente dalla provenienza, farla ‘salire’ ai massimi livelli. Noi non ne siamo capaci”.

Perchè?
“Manca un sistema di valori. In meritocrazia sono due: il primo sono le pari opportunità, vale a dire la capacità di azzerare i privilegi di una nascita grazie al sistema educativo. Un esempio è la storia di Barack Obama: proviene da una famiglia poverissima. A scuola era  molto bravo, è stato selezionato con un test (SAT Test di attitudine scolastica per l’ingresso alle università americane). Superandolo ha avuto una borsa di studio ed è stato ammesso ad Harvard: oggi è il presidente degli Stati Uniti.
Da noi questo non esiste. Perché il nostro sistema educativo è iniquo. Le pari opportunità nel nostro Paese si fermano a Roma. Ad esempio i famosi  test Pisa (un programma internazionale dell’Ocse di valutazione degli studenti che utilizza test standardizzati omogenei per confrontare i risultati scolastici di vari Paesi) hanno risultati migliori al centro-nord, pur non essendo esaltanti non sono distanti dalla media europea, rispetto a quelli disastrosi al Sud.  Chi nasce al sud è svantaggiato. E la scuola non riempie questo gap.
Il secondo: nell’economia manca l’essenza di un valore di fondo della meritocrazia: la concorrenza, carburante dello sviluppo economico. Proteggere i consumatori, i clienti, i cittadini invece che le imprese. In Italia questo sistema di valori  non è mai esistito prova ne sia che tutta la nostra economia si è praticamente basata su un’alleanza, una triade che sono le confederazioni le associazioni delle imprese, lo stato e i sindacati a spese dei consumatori e dei cittadini”.

Da dove si comincia per far partire il processo meritocratico?
“Si inizia dal sistema educativo, perno della mobilità sociale. Da noi è iniquo: discrimina tra Nord e Sud e tra ricchi e poveri. Agli istituti tecnici vanno i figli dei meno abbienti e a laurearsi sono i privilegiati a spese dei primi, perché l’università, essendo gratuita, di fatto viene finanziata dai contribuenti. L’Italia non produce abbastanza laureati e quelli che produce non trovano un lavoro adeguatamente retribuito, non fanno il salto sociale che si verifica in altri Paesi, perché la preparazione media non è adeguata alle richieste del mercato. Mancano atenei di eccellenza senza i quali non si crea la classe dirigente e i ricercatori, motori dello sviluppo e della mobilità sociale. Nelle società meritocratiche la scuola invece serve per azzerare i privilegi della nascita: lo Stato ti seleziona, ti manda a scuola a spese sue, indipendentemente dalla bravura e dalle capacità, accedi a buone università, ti laurei, trovi un buon lavoro e sali nell’ascensore sociale, senza bisogno di raccomandazioni”.

Malgrado lo scenario, nel libro Lei mi sembra però ottimista…
“L’ottimismo deriva dal fatto che rilanciare il merito in Italia è possibile. Nel libro ho fatto quattro proposte molto concrete che in realtà  trovano riscontro, perché in Italia ci sono dei ‘semi del merito’ (nelle imprese, nella ricerca scientifica, nella giustizia) che applicano molto di queste idee”.

Cosa prevedono le quattro  proposte?
“La prima: lanciare una delivery unit (unità di consegna) sull’esempio di quella realizzata in Inghilterra negli anni ’90 da Tony Blair per consegnare ai cittadini dei miglioramenti: 50 giovani eccellenti inglesi, guidati da un capo unit, sull’obiettivo di migliorare la qualità e ridurre gli sprechi nel settore pubblico inglese (come riduzione dei tempi delle Tac, miglioramento dei Pisa Test, miglioramento della sicurezza) hanno stabilito obiettivi e misure e aiutato Blair a interagire con i ministeri per definire il miglioramento. In 10 anni la performance dei Pisa test, del Servizio Sanitario e dei trasporti è migliorata.
Questa iniziativa se applicata favorirebbe in molti modi l’avvio di un circolo virtuoso del merito, perché potrebbe anche contribuire a creare ogni anno 1000 nuovi leader eccellenti,  come è avvenuto nel governo di Singapore, il più meritocratico nel mondo, aumentare la fiducia degli italiani nel loro Stato e creare opportunità per migliaia di giovani e donne meritevoli.

La seconda: il sistema educativo. Lanciare una grande iniziativa di testing nazionale tipo Sat americano e di altri test simili di altre società meritocratiche. L’iniziativa permetterebbe ai migliori 10 mila studenti italiani di crearsi la propria università di eccellenza, grazie ad un sistema di ‘buoni’ e farebbe sorgere quella leadership necessaria per rafforzare l’economia e la società.

La terza proposta prevede la creazione di una Authority del merito per liberalizzare e (de)regolamentare i servizi pubblici e privati locali, per combattere le lobby locali.

La quarta consiste in una serie di azioni positive per evidenziare la leadership femminile nel Paese, sull’esempio di quella prevista dalla normativa norvegese che impone un aumento della presenza del gentil sesso nei consigli di amministrazione delle imprese quotate. Va detto che le azioni positive non riguardano le attuali ‘quote rosa’ della politica, ma iniziative che mettano in posizione di vero potere le migliori donne italiane”.


Migliorare i sistemi di valutazione per premiare il merito


Tiziano TREU, vicepresidente della XI Commissione Lavoro e Previdenza Sociale del Senato, esponente del Partito Democratico, è stato presidente dell’Aran, l’Agenzia per la Contraffazione nel Pubblico Impiego. Nel corso dell’ultima legislatura ha firmato, insieme ad altri esponenti del Partito Democratico, una proposta di legge (A.S. 746)  per l’istituzione di un’Authority indipendente per il pubblico impiego, con il compito di valutare il funzionamento, rendere più efficiente l’amministrazione e individuare i meriti e demeriti sia dei dipendenti, sia dei dirigenti. Alcune delle proposte contenute nel documento sono state di recente accolte al Senato, nell’attuale disegno di legge delega presentato dal Ministro per la pubblica amministrazione e l’innovazione, Renato Brunetta.



Senatore Treu, si parla molto di meritocrazia negli ultimi tempi. Ne parla il Governo, ne parlano i sindacati. In realtà è un discorso che la sua organizzazione politica ha già avviato dall’ultima legislatura. Difficile oggi trovare qualcuno contrario alla meritocrazia…
“E’ chiaro che noi dobbiamo correggere le  pratiche più che le regole. Perché le regole già dicono, anche nel pubblico impiego, di valutare i dipendenti, quindi premiarli in relazione ai loro meriti, ai loro rendimenti. Purtroppo però queste regole, anche contrattuali, da tempo esistenti, non sono praticate”.

Per quale ragione?
“Uno dei motivi per cui non sono praticate, a parte l’inerzia, è il fatto che non ci sono dei sistemi di valutazione oggettivi e trasparenti. Perché per premiare il merito sul serio occorre questo. E’ fondamentale. Altrimenti si può pensare che sia un arbitrio e che non vi sia garanzia se a deciderlo è il datore di lavoro. Per questo c’è bisogno di una valutazione oggettiva, imparziale”.

In questo senso come vi state muovendo?
“C’è il disegno di legge che abbiamo discusso al Senato (Delega al Governo finalizzata all’ottimizzazione della produttività del lavoro pubblico A.S. 847),  in cui noi abbiamo anche corretto l’impostazione del ministro Brunetta che voleva fare la valutazione da parte dello stesso ministero. Invece noi vogliamo una valutazione oggettiva e indipendente. Credo che questa sia la prima cosa da fare”.

Questo vale solo per il settore pubblico?
“Anche nel privato è importante che le valutazioni del merito non siano arbitrarie o unilaterali, ma che via sia invece un controllo sociale. I contratti collettivi ogni tanto lo propongono”.

Secondo Lei manca dunque meritocrazia nelle organizzazioni produttive italiane e nelle istituzioni?
“Non c’è dubbio che nelle organizzazioni produttive e nelle istituzioni vi sia poca meritocrazia. Anche nei privati c’è ne poca. Perché la parte di retribuzione, per esempio, che viene legata alla produttività è minima. Tanto è vero che solo adesso si è cercato di incentivarla, con la detassazione e decontribuzione dei premi di produttività. Tutto questo contribuisce a stimolare la meritocrazia. Però ci vuole un uso giusto della meritocrazia, perché non diventi uno strumento di discriminazione, bensì uno strumento di stimolo”.