15 Mar 2010

Dopo il caso FIAT

Relazioni sindacali dopo il caso Fiat – Mirafiori 
Il Dibattito


1.   La tesi di Marchionne è che occorre guardare allo sviluppo industriale italiano con occhi radicalmente nuovi, poiché le vecchie logiche – dice – non consentono di stare al passo con le sfide dell’economia globale, in primis quelle che arrivano dai paesi emergenti. Che ne pensa?
C.        La valutazione di Marchionne, a proposito della concorrenza degli altri paesi, non è di per sé sbagliata. Il problema sono le scelte che lui adotta: scelte che sembrano non andare in direzione di una reale competitività di Fiat nel nostro paese. Non a caso, come sta emergendo, Marchionne ha scelto di andar via dall’Italia.
Il problema della Fiat oggi non è, come sembra, quello di abbattere il costo del lavoro. Il difetto non è nel sistema di produzione, bensì nel fatto che l’azienda non è più in grado di vendere le sue auto sul mercato: è una questione di capacità di vendita, di qualità dei modelli, non di produzione.
T.         Certamente occorre innovare. Ma l’innovazione non deve riguardare solo i rapporti di lavoro, bensì anche le strutture organizzative, produttive e tecnologiche. Ognuno deve fare la sua parte. Fiat ha certamente dei problemi con la Fiom, però deve ancora dimostrare di essere all’altezza dell’innovazione di prodotto.
Fino ad ora abbiamo qualche dubbio che sia così: lo stesso Marchionne riconosce le difficoltà di rendere competitivi i suoi prodotti.
2.    Secondo la Fiom, contraria all’accordo, la Fiat pretenderebbe la rinuncia da parte dei lavoratori di alcuni diritti fondamentali in nome di una maggiore produttività. (esempio: turni fino a 6×3 dal 5×2 attuale, pause ridotte a 30 minuti dai 40 attuali, tasso assenteismo al 3,2% con mancata retribuzione giorno precedente riposo, niente elezione delegati sindacali perché fuori contratto nazionale e stop sciopero contro intesa pena licenziamento) Si tratta davvero di una “stretta” sui diritti che vìola lo statuto dei lavoratori? Quali e in che termini, ad esempio?
C.        C’è stato semplicemente un ricatto nei confronti dei lavoratori, tutto qui. Si è detto loro: o ti sta bene, o perdi il tuo posto di lavoro. Non c’è stato nessun accordo. Se poi vogliamo parlare della questione organizzativa, bisogna dire che sul tavolo c’erano diverse proposte. Anche da parte di Fiom. La discussione si poteva tenere. Ma non c’è stato modo di discutere sul modello organizzativo. E’ stata un’imposizione. Per questo Fiom e Cgil hanno scelto una posizione di scontro: per ritornare ad avere un contratto nazionale anche in Fiat.
T.         Intanto non è detto che sarà così. Da un lato ci sono sue dichiarazioni, poi in parte smentite, e dall’altro c’è l’interlocuzione con il governo che ha segnalato la preoccupazione che l’Italia perda un importante insediamento come quello della Fiat. Marchionne non può certo far finta di dimenticare gli anni di incentivi da parte dello Stato alla Fiat. Che poi la globalizzazione richieda accordi internazionali e anche magari la nascita di diversi centri produttivi, lo sappiamo. Ma questo non può portare alla rinuncia per il nostro paese di un importante pezzo di industria.
3.    Il modello-base di accordo sorto dopo il caso Fiat, ovvero la nascita di newco svincolate dal contratto nazionale e quindi da Confindustria, sembra stia prendendo piede anche in altre realtà. E’ in atto un cambiamento senza precedenti?
C.        L’80 per cento delle imprese italiane conta meno di 50 dipendenti. Senza un contratto nazionale, in grado di garantire un salario equo e più in generale di regolare il mercato del lavoro, sarà una giungla. Se ogni azienda si fa il suo contratto, si troverà sempre un piccolo sindacato più vicino agli interessi dell’imprenditore. A quel punto sarà una competizione al ribasso tra imprese, per chi fa il contratto più vantaggioso per ridurre il più possibile i costi del lavoro. Per non parlare del fatto che Marchionne non intende svelare il piano industriale. Quale accordo sindacale potrà mai nascere se i lavoratori non sanno quale sorte toccherà agli stabilimenti italiani?
T.         Sono convinto che questa situazione richieda sacrifici. Se c’è un assenteismo forte, bisogna pure far qualcosa, giusto? Io penso che le tesi della Fiom siano inaccettabili. Semmai quello che deve fare il sindacato è dire all’azienda: va bene, noi facciamo i sacrifici ma tu dai delle garanzie sull’innovazione, sul futuro. E poi quando c’è la ripresa si deve pretendere la propria parte, proprio come sta facendo il sindacato tedesco.
4.    Il caso Fiat-Mirafiori, infatti, ha amplificato la frattura all’interno dell’universo sindacale. Il 23 dicembre tutte le organizzazioni sindacali eccetto la Fiom-Cgil hanno firmato l’accordo.  E i “no” al referendum di Mirafiori sono arrivati principalmente dagli operai, per i quali le nuove regole proposte da Marchionne porterebbero maggiori sacrifici. Non considera questo aspetto una crepa nel sistema stesso della rappresentanza sindacale?
C.        E’ una crepa per il paese intero, non per il solo universo sindacale. Se si spezza il sistema di rappresentanza sindacale all’interno di un’azienda, si perde un pezzo di democrazia nel paese. La questione non si ferma davanti ai cancelli della Fiat, ma riguarda tutti.  Non ha senso pensare a chi ha vinto e chi ha perso in questo scontro sul caso Fiat: in ballo c’è la democrazia e la coesione sociale.
T.         Purtroppo i rapporti fra sindacati sono difficili sotto vari aspetti. E già questo è un male, perché il sindacato di per sé viene indebolito dalle condizioni della competizione mondiale. Poi, se si divide, è peggio ancora. Non a caso una delle forze del sindacato tedesco è quella di essere unitario.
Il caso Fiat è particolarmente grave, perché come ho detto in molte altre situazioni territoriali, con aziende di vario genere, non siamo a questo punto. Altrove si continuano a fare accordi unitari.
Va detto però che la Fiat c’ha messo del suo, perché evidentemente non ha curato abbastanza la partecipazione e il coinvolgimento dei lavoratori. Le aziende che hanno ottenuto risultati buoni senza traumi, sebbene con sacrifici, li hanno ottenuti perché sono state attente alla partecipazione. Mi auguro che alla fine prevalga questo tipo di logica.
5.    Ai primi di Febbraio 2011 c’è stata l’intesa a Wolsfsburg per il rinnovo del contratto a 100 mila lavoratori Volkswagen. Ig Metall ha conquistato un 4 per cento di fatto (3,2% + una tantum) di aumenti salariali per 16 mesi. Negli ultimi anni l’azienda ha ottenuto sacrifici dai lavoratori per aumentare la produttività del 10% e superare la crisi: settimana corta, salari ridotti. In cambio, ha tenuto i posti di lavoro in Germania (sebbene con anche manodopera dell’est) e entro 7 anni punta a 40 mila nuovi dipendenti per superare la Toyota (35 mila di questi in Cina). Una delle carte vincenti di VW pare sia stata proprio la cosiddetta “cogestione”.
C.        Be’, se vogliamo prendere il modello Germania allora prendiamolo tutto, non “a pezzettini”. Lì c’è una legge che vincola le imprese a far sì che nei consigli di sorveglianza vi sia una rappresentanza sindacale.  Noi siamo disponibili ad una discussione su questo punto, ma con il clima che c’è oggi in Italia è ben difficile che si possa arrivare a discutere di leggi del genere. Diciamola tutta: in Germania hanno gli stipendi doppi che in Italia, il piano industriale è stato presentato a dovere, hanno la qualità dei prodotti, hanno orari che arrivano al massimo alle 36 ore, e soprattutto hanno fatto un accordo che comprendeva la garanzia occupazionale in cambio dei sacrifici.
Questo non c’è nell’accordo Fiat. Anche chi ha votato sì il 14 febbraio non ha alcuna garanzia del posto di lavoro: tant’è vero che sono in cassa integrazione.
T.         In Europa e anche in Italia in questi ultimi tempi sono state siglate centinaia di buone intese che hanno comportato uno sforzo nell’impegno di lavoro (meno pause, più turni ecc). Il caso VW è solo uno dei più noti. La stessa Fiom ha fatto molti accordi senza che venisse sollevato tutto questo polverone.
Il punto è che sono necessarie rinunce, perché le condizioni di lavoro cambiano. Per esempio le regole sulla malattia sono mutate più volte nel tempo. E si potrebbero fare altri esempi.
Secondo me non è necessaria la “cogestione”, è sufficiente che l’azienda promuova delle serie modalità di partecipazione con i lavoratori.


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