17 Mag 2011

Nuove risorse

Puntare su storia personale  e continuità

Osservatorio Risorse umane ha intervistato Pier Luigi Celli, Direttore Generale Università LUISS di Roma, che, dopo la discussa lettera al figlio Mattia, pubblicata sul quotidiano La Repubblica nel novembre 2009, dal titolo “Figlio mio lascia questo paese”, traccia un quadro cupo sul futuro professionale dei giovani nel nostro Paese.

Leggi la lettera




Ci spiega in estrema sintesi, qual è la “Generazione tradita” e perché lo sarebbe?

Tradire significa svincolarsi da un’appartenenza (e da una dimensione di impegno) al plurale. Abbiamo esposto un’intera generazione di giovani a questo sentimento e stato dell’animo, non offrendo loro, in primo luogo, memorie collettive a cui rifarsi e da condividere. La nostra generazione, come scrivo nel libro, “ha corroso anche quelle che ci hanno seguito, proprio per la sua incapacità narrativa: un’afasia “verbosa” e senza presa; laddove “tramandare” avrebbe richiesto un impegno a “fare”, mentre noi disperdevamo il nostro patrimonio in mille pretese in cui era in gioco soltanto l’apparenza, senza appeal”. 

Il “tappo”, diciamo così, che impedisce ai giovani di emergere è un problema solo italiano? E se è possibile individuarne la radice, questa potrebbe essere il familismo nostrano? Oppure cos’altro?


È innegabile che esista, oggi,  nel nostro Paese un serio problema di riequilibrio generazionale, ma la soluzione non può essere rinvenuta solo nell’età, che è un discrimine di per sé né positivo, né negativo. Rilevano, semmai, le modalità con cui si approda a certe posizioni. Ho parlato, in proposito, di “oligarchie di ventura”, la cui connotazione visibile è quella tipica delle “corti”, che  determinano una crescita rattrappita e incolore di quelli che, in qualsiasi società ordinata, sarebbero i “ricambi di qualità”.

In due parole, cosa dovrebbero fare un’azienda seria italiana, in termini di selezione e gestione delle risorse umane, per non “tradire” la nuova generazione?

Per non tradire le giovani generazioni, le imprese dovrebbero abbandonare la prevalente ideologia gestionale ripiegata su numeri e valutazioni razionali, che non tengono in alcun modo conto di quei saperi evoluti, e di quelle competenze complesse e preparazioni evolute, richiesti dalla competizione internazionale. Si dovrebbero tornare a prendere in considerazione le biografie personali, piuttosto che asettici curriculum, attraverso cui ri-costruire narrazioni aziendali in cui, anche per i più giovani, sia possibile stare con dignità ed essere riconosciuti con equità.

In due parole, cosa dovrebbe fare un 25 enne italiano ora, già laureato, pronto ad andare all’estero ma con la speranza di cambiare le cose qui?

Se è effettivamente pronto ad andare all’estero che parta pure, perché poi è utile considerare più punti di vista, magari per confermare la volontà di rimanere in Italia dopo aver fatto un giro all’estero che gli abbia consentito di guardare le cose da angolature che sono differenti. Il ritorno – penso soprattutto  a quei molti giovani del Sud che hanno abbandonato le proprie terre di origine per il centro e il nord d’Italia – è sempre doloroso perché richiede la messa in discussione della scelta, in assenza di intervento di nuove condizioni. A quei giovani che vogliono sperimentare la speranza del cambiamento il consiglio è quello di affrontare questa sfida, possibilmente non da soli ma insieme ad altri coetanei e sotto la guida di buoni maestri, col coraggio delle proprie idee e con la cultura specifica per difenderle

Secondo lei cambiare l’articolo 18 e dar vita al “contratto unico” sarebbe una soluzione possibile?

Il “contratto unico”, a protezione crescente per tutti i lavoratori, può essere certamente una soluzione da esplorare, senza sottovalutare di dar risposta alla grave messa in crisi di quell’imprinting che i primi anni di lavoro consentivano di assumere.  Se questi primi due o tre anni di lavoro all’interno di un’impresa non si riescono più a farli in maniera continuativa, non ci si affeziona più a nessuna impresa, senza che poi nessuna azienda si affezioni a quel giovane. Se a questi ragazzi non garantiamo una continuità di qualche tipo, anche una continuità mentale rispetto alle cose, noi questa generazione l’abbiamo tradita.



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