La prefazione di Pier Luigi Celli

In occasione dell’uscita del volume di Umberto Frigelli, “Guidare il cambiamento organizzativo – Potere, razionalità, emozioni“, edito da FS (2017), pubblichiamo la Prefazione di Pier Luigi Celli.

Dichiaro da subito un pregiudizio che forse mi renderebbe inadatto a presentare questo lavoro di Frigelli con la distanza necessaria per una riflessione neutrale sui temi trattati: la convinzione, per aver attraversato quarantacinque anni di impresa, che il cambiamento nelle organizzazioni soffra di un eccesso di analisi e di strumentazione e di una modesta storia di risultati.

Ma, per aver condiviso con l’autore quella che lui richiama con passione l’età d’oro della consulenza in alcune aziende che lo hanno visto protagonista, ho anche la sensazione precisa di quanto il lavoro di ricerca, formazione, progettazione di quei pionieri italiani a cavallo tra psicologia, sociologia e business abbiano contribuito a rendere meno opachi i processi che nelle imprese arrugginivano le modalità di lavoro e annebbiavano l’aspirazione a innovare.

Per queste ragioni, e per un tributo di riconoscenza a quanti in quegli anni hanno aiutato me e tanti altri ad amare il mestiere manageriale, mi sembra giusto sottolineare qui la qualità della fatica dell’autore che ha saputo rivestire di ‘storia’ vissuta e di passione professionale quello che altrimenti avrebbe potuto apparire un contributo con taglio manualistico.

Il cambiamento nelle organizzazioni

Cambiare è imperativo che non richiede troppe spiegazioni se si pensa a come la vita inevitabilmente evolva abbandonando via via forme, modalità, sentimenti, progetti, rapporti che trascinano con sé il farsi e il disfarsi delle cose, il nostro rapporto con noi stessi e col mondo; e poi il senso stesso con cui guardiamo a quello che ci circonda e ci coinvolge.

Eppure, quando affrontiamo il processo del cambiamento e lo collochiamo in ambiti organizzati, cominciamo subito ad avvertire il disagio come di qualcosa che stride, quasi che la normalità che impone la natura alla trasformazione di ogni organismo vivente trovasse nei sistemi strutturati artificialmente un attrito che crea intoppi, rallentamenti e un disorientamento che ha bisogno di un supplemento di giustificazione.

Forse, allora, si tratterebbe di fermarsi a riflettere se i modi con cui le imprese hanno imparato, e poi confermato, certi assetti, con le regole adottate per governarli, siano oggi, più che in passato, degli assunti all’altezza dei compiti che caratterizzano i business e abbiano coscienza delle potenzialità degli uomini chiamati a interpretali.

La mia opinione (ma anche qui dichiaro il pregiudizio di un anarchico che ha maturato negli anni un forte sospetto verso l’eccesso di razionalità strumentale data spesso per scontata) è che sia opinabile poter parlare di cambiamento organizzativo se non si rimette in discussione il rapporto tra la persona e le strutture che le persone le ‘inglobano’, quasi sempre a prescindere dal loro modo di ragionare, dalle loro aspirazioni, dalla ridondanza dei loro saperi, curricolari o esperienziali.

Perché senza coinvolgere direttamente anche gli attori “minori”, o pregiudizialmente ritenuti tali, in una storia che li comprenda come, in qualche forma, protagonisti, non c’è nessuna ragionevole speranza di innescare un cambiamento vero, né tantomeno di portarlo a compimento.

Le organizzazioni sono realtà sociali, vivono di ruoli e di regole ma anche di relazioni identificanti, richiedono riconoscimenti reciproci, scambiano anche beni non posizionali, sono percorse da emozioni, correnti di giudizi e di pregiudizi, che attraversano confini artificiali e strumentali: vivono, insomma.

Un “mondo” non è sacrificabile oltremisura in uno schema, anche perché gli schemi non esauriscono la trama del racconto che una avventura, per quanto lavorativa, è in grado di produrre se ben condotta.

Ecco perché tanti progetti di cambiamento falliscono: non hanno anima.

Le difficoltà nel processo di cambiamento

L’articolazione delle azioni da mettere in campo non può scorrere su un deserto di motivazioni condivise, là dove certe strutture asfittiche e codificate eccitano, quando va bene una miriade di individualisti tribali in cerca di protezione o di accreditamento fidelizzante.

E non basta il richiamo allo spirito di corpo se tra il sopra e il sotto delle organizzazioni, tra il dichiarato e i comportamenti a corso libero, la divaricazione è spesso così evidente da gelare speranze e credibilità.

Io credo che bisogna fermarsi a riflettere su quanti disagi e quanta sofferenza strutture organizzate secondo logiche ancora gerarchico-funzionali, con tutto il loro carico di processi spesso farraginosi, hanno creato nei dipendenti a cui oggi si chiede “di condividere”.

Forme di misconoscimento che rattrappiscono gli apporti individuali e frustrano la naturale propensione delle persone alla collaborazione in contesti soddisfacenti.

Si dice, ed è plausibile, che le nuove tecnologie, la digitalizzazione e tutti i dispositivi di accelerazione delle informazioni, stanno cambiano le mappe organizzative, e lo faranno con una accelerazione inevitabile.
Questo però richiederebbe una riflessione meno generica: quanto si può ancora conservare una architettura largamente tailoristica nella sua formulazioni ordinativa quando i nuovi strumenti, rendendo largamente disponibili, nella pratica quotidiana, informazioni e relazioni che corrono in orizzontale, alimenta una nuova cultura della ‘disponibilità’ delle risorse e della voglia di ‘esserci’, di stare ‘dentro’?

Forse è arrivato il momento, se si vuole legittimare il cambiamento, di considerare che non si può organizzare il lavoro con modalità che sono contro-dipendenti rispetto al modo con cui funzionano le teste, di quanti sono chiamati ad agire il cambiamento, e che invece sono strutturalmente sociali e relazionali.

Ecco perché, il richiamo appassionato nel testo di Frigelli alle responsabilità del management, acquisisce in prospettiva un valore strategico.

La soluzione proposta

Non c’è alcuna possibilità di cambiare se non si parte dall’attribuzione di valore a ciascuno di quelli che sono chiamati a condividere un progetto strategico per l’azienda, rifuggendo dalla tentazione di esaurire gli sforzi e di puntare sulla revisione formale dei processi, come se la bellezza del disegno e la sua razionalità fosse di per sé una ragione evidente per tutti per alimentare la sua desiderabilità.

Creare “senso” per quello che si prospetta richiede prima di tutto un lavoro di accreditamento di coloro che hanno la responsabilità nell’indicare il percorso e gli obiettivi, con il corollario di rendere evidente che la testimonianza sul fatto di crederci passa dal cambiamento di relazioni tra chi comanda e chi è chiamato ad eseguire.

L’autorità, di per sé, non è più una leva che può funzionare in assenza di credibilità.

E qui viene l’occasione per fare anche un riferimento ai criteri della “performance”, richiamati così spesso nella mistica manageriale come un mantra in grado di quantificare, qualificandoli su base numerica, gli apporti individuali alla realizzazione di un progetto.
Va ricordato che la “performance” è un termine di derivazione teatrale, ambiente in cui ha un significato abbastanza preciso che attiene alla “rappresentazione”.

In azienda “performance” indica il “risultato”, la capacità oggettivata di contribuire alla realizzazione di un compito.

In realtà, nel tempo, molto spesso il degrado di criteri e di pratiche, specie ai livelli alti, ha finito per teatralizzare la ‘performance’ aziendale, privilegiando la rappresentazione più che il risultato.

E questo ha contribuito al deficit di credibilità che ha accompagnato tanti progetti di cambiamento vissuti come specchio deformante di una realtà che cambia solo a parole, nelle slides dei consulenti, o nelle ricorrenti liturgie che affidano al cambio di organigrammi e di ordini di servizio l’illusione di un mutamento di passo che è spesso solo un mutamento di stile.

Chi vuole guidare un cambiamento effettivo deve offrire la percezione visibile che si cambia in alto prima di chiedere la fiducia a quelli a cui si chiede di cambiare in basso: abbandonando metodi che non “risuonano” più, sapendo che bisogna dedicare tempo personale per far accadere le cose, mescolandosi al di là dei ruoli e delle posizioni.

Soprattutto rendendosi conto che senza innescare il racconto di una storia che dia a tutti la possibilità di giocare un ruolo coinvolgente, nessun cambiamento potrà andare lontano.

Pier Luigi Celli

Laureatosi in Sociologia all’Università di Trento, è stato dirigente per le maggiori aziende italiane, tra cui Eni, Omnitel, Olivetti, Enel, Ipse 2000 e Unicredit.
È stato Direttore Generale della RAI e dell’Università LUISS Guido Carli di Roma, Presidente di ENIT, Senior Advisor di Unipol Gruppo Finanziario e di Poste Italiane. Attualmente è Presidente Sensemakers, membro del consiglio di amministrazione di La Perla, Illy e della Giuseppe Zanotti Spa.
Ha svolto, e svolge, attività di docenza presso corsi di laurea e master di diverse Università. È autore di numerosi libri di saggistica e narrativa, nonché saggi e articoli su riviste e quotidiani nazionali.

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