17 Mag 2011

Nuove risorse

Puntare su storia personale  e continuità

Osservatorio Risorse umane ha intervistato Pier Luigi Celli, Direttore Generale Università LUISS di Roma, che, dopo la discussa lettera al figlio Mattia, pubblicata sul quotidiano La Repubblica nel novembre 2009, dal titolo “Figlio mio lascia questo paese”, traccia un quadro cupo sul futuro professionale dei giovani nel nostro Paese.

Leggi la lettera




Ci spiega in estrema sintesi, qual è la “Generazione tradita” e perché lo sarebbe?

Tradire significa svincolarsi da un’appartenenza (e da una dimensione di impegno) al plurale. Abbiamo esposto un’intera generazione di giovani a questo sentimento e stato dell’animo, non offrendo loro, in primo luogo, memorie collettive a cui rifarsi e da condividere. La nostra generazione, come scrivo nel libro, “ha corroso anche quelle che ci hanno seguito, proprio per la sua incapacità narrativa: un’afasia “verbosa” e senza presa; laddove “tramandare” avrebbe richiesto un impegno a “fare”, mentre noi disperdevamo il nostro patrimonio in mille pretese in cui era in gioco soltanto l’apparenza, senza appeal”. 

Il “tappo”, diciamo così, che impedisce ai giovani di emergere è un problema solo italiano? E se è possibile individuarne la radice, questa potrebbe essere il familismo nostrano? Oppure cos’altro?


È innegabile che esista, oggi,  nel nostro Paese un serio problema di riequilibrio generazionale, ma la soluzione non può essere rinvenuta solo nell’età, che è un discrimine di per sé né positivo, né negativo. Rilevano, semmai, le modalità con cui si approda a certe posizioni. Ho parlato, in proposito, di “oligarchie di ventura”, la cui connotazione visibile è quella tipica delle “corti”, che  determinano una crescita rattrappita e incolore di quelli che, in qualsiasi società ordinata, sarebbero i “ricambi di qualità”.

In due parole, cosa dovrebbero fare un’azienda seria italiana, in termini di selezione e gestione delle risorse umane, per non “tradire” la nuova generazione?

Per non tradire le giovani generazioni, le imprese dovrebbero abbandonare la prevalente ideologia gestionale ripiegata su numeri e valutazioni razionali, che non tengono in alcun modo conto di quei saperi evoluti, e di quelle competenze complesse e preparazioni evolute, richiesti dalla competizione internazionale. Si dovrebbero tornare a prendere in considerazione le biografie personali, piuttosto che asettici curriculum, attraverso cui ri-costruire narrazioni aziendali in cui, anche per i più giovani, sia possibile stare con dignità ed essere riconosciuti con equità.

In due parole, cosa dovrebbe fare un 25 enne italiano ora, già laureato, pronto ad andare all’estero ma con la speranza di cambiare le cose qui?

Se è effettivamente pronto ad andare all’estero che parta pure, perché poi è utile considerare più punti di vista, magari per confermare la volontà di rimanere in Italia dopo aver fatto un giro all’estero che gli abbia consentito di guardare le cose da angolature che sono differenti. Il ritorno – penso soprattutto  a quei molti giovani del Sud che hanno abbandonato le proprie terre di origine per il centro e il nord d’Italia – è sempre doloroso perché richiede la messa in discussione della scelta, in assenza di intervento di nuove condizioni. A quei giovani che vogliono sperimentare la speranza del cambiamento il consiglio è quello di affrontare questa sfida, possibilmente non da soli ma insieme ad altri coetanei e sotto la guida di buoni maestri, col coraggio delle proprie idee e con la cultura specifica per difenderle

Secondo lei cambiare l’articolo 18 e dar vita al “contratto unico” sarebbe una soluzione possibile?

Il “contratto unico”, a protezione crescente per tutti i lavoratori, può essere certamente una soluzione da esplorare, senza sottovalutare di dar risposta alla grave messa in crisi di quell’imprinting che i primi anni di lavoro consentivano di assumere.  Se questi primi due o tre anni di lavoro all’interno di un’impresa non si riescono più a farli in maniera continuativa, non ci si affeziona più a nessuna impresa, senza che poi nessuna azienda si affezioni a quel giovane. Se a questi ragazzi non garantiamo una continuità di qualche tipo, anche una continuità mentale rispetto alle cose, noi questa generazione l’abbiamo tradita.



Welfare integrativo e benessere aziendale

Ho avuto il piacere, qualche giorno fa, di parlare con il Direttore del Personale di un’importante azienda milanese, persona intelligente e visibile, che sa recepire i trend del mondo aziendale, il quale mi evidenziava come oggi un tema all’attenzione delle aziende sia il “benessere organizzativo”.

Le aziende (ma quali? di quali dimensioni? di che tipologia?) sembra stiano riscoprendo quegli elementi accessori della retribuzione che costituiscono facilitazioni nella vita quotidiana dei dipendenti, sostituendosi o integrando aspetti di welfare altrimenti propri delle istituzioni pubbliche.

In termini tecnici si può parlare di perquisites, e la loro caratteristica principale è di essere usufruibili non da categorie specifiche, sovente manageriali (i benefits dei dirigenti …) ma dall’intera popolazione aziendale. Le aziende si fanno carico dei bisogni primari, concedendo agevolazioni in generi di prima necessità e servizi.



Grande risonanza, in questo senso, ha avuto ultimamente il contratto Luxottica, anche se, vi sono altre esperienze significative, forse meno pubblicizzate, come quella della Tci, leader mondiale nell’elettronica per i led, il piano welfare di ATM, i piani welfare aziendali di Intesa San Paolo, di Tironi e Sacmi, l’asilo nido Ferrero. Questi progetti prevedono previdenza integrativa; assistenze socio-sanitarie integrative; integrazione delle prestazioni economiche spettanti in materia di maternità e paternità; polizze vita; assistenza e sostegno delle famiglie e dei lavoratori per particolari esigenze di tipo formativo, culturale, per il tempo libero, per l’uso di mezzi aziendali e per il trasporto in determinate occasioni, l’asilo nido, la palestra, le borse di studio etc. o anche la possibilità per il dipendente di acquistare i servizi in modo fiscalmente agevolato o con sconti dati da convenzioni.


Ad aprile, per esempio, apparve la notizia che le Ferrovie francesi, Sncf, avessero annunciato la creazione di asili nido in alcune stazioni ferroviarie, per facilitare i genitori pendolari.
In questi contesti la funzione sociale delle imprese tende ad ampliare l’intervento del pubblico.  A nostro merito (italiano) va ricordato che nel 2003, l’allora Ministero del Welfare aveva allo studio lo standard CSR-SC (Corporate Social Responsability) con il supporto dell’Università Bocconi.


Uno degli obiettivi dello studio (forse il principale) era di offrire una proposta italiana per uno standard sulla Responsabilità Sociale delle Imprese, su base volontaria, in alternativa ad analoghe proposte presentate dall’Unione Europea (di carattere cogente). In questo modo non sarebbero state penalizzate le aziende appartenenti a nazioni dell’area mediterranea, rispetto alle aziende del Nord Europa, storicamente più sensibili alle dinamiche della Responsabilità Sociale. Lo standard si basava sul principio dell’autovalutazione e avrebbe dato all’azienda la possibilità di promuoversi come socialmente responsabile e godere di alcuni vantaggi fiscali attraverso incentivi fiscali e contributivi, erogazione di fondi, semplificazioni amministrative, premi annuali, etc. per le azioni di responsabilità sociale intraprese. Di quella proposta di incentivazione per le aziende mi sembra se ne siano perse le tracce. Altre urgenze si sono sovrapposte, altre priorità politiche, altre priorità economiche.


Va riconosciuto che quelle aziende che oggi intraprendono la strada di un comportamento socialmente responsabile contribuiscono non solo a creare e sostenere l’immagine, ma anche a migliorare i rapporti con tutti gli interlocutori dell’impresa, il personale in primis, e, più in generale, tutti gli stakeholders.


Il rispetto dell’ambiente, della comunità in cui si opera, della tutela degli individui, si coniuga, anche intuitivamente, con la capacità delle aziende di gestire engagement e retention, offrendo ambienti di lavoro sani, stabili, capaci di offrire supporto e facilitazioni ai dipendenti.


Va, però, sottolineato che il benessere organizzativo non è un concetto che può essere relegato ai servizi che si offrono ai dipendenti. Rimane centrale la capacità dell’organizzazione di presidiare gli elementi della gestione individuale e del clima, che travalicano i bisogni primari e che certamente rendono più articolato e complesso il tema del benessere organizzativo e dello sviluppo degli individui.

Finanza comportamentale. Psicologia delle scelte

Come orientarsi, oggi, nella complessità del mercato?
La sola conoscenza tecnica degli strumenti finanziari non è più sufficiente per affrontare una realtà che si evolve e che richiede uno scambio continuo con le componenti psicologiche che regolano le scelte. La finanza comportamentale è una risposta concreta a queste nuove esigenze.

Gli autori la propongono come un percorso che può essere rivolto sia al consulente, mosso dall’intento di comprendere appieno le dinamiche del mercato e del rapporto con gli intermediari (finanziari, bancari e assicurativi), sia ai clienti/investitori che desiderino acquisire maggiore consapevolezza e autonomia nella gestione delle proprie risorse economiche.

Il testo prende in considerazione le teorie normative e le teorie descrittive, spesso, tra loro complementari per spiegare il comportamento dei diversi operatori economici in situazioni di incertezza, associando al contributo concettuale una serie di schede, di esempi e di esperimenti trasferibili alle attività svolte “sul campo”.

Dettagli del libro
Titolo: Finanza comportamentale. Psicologia delle scelte
Autori: Franzosini Gianfranco, Franzosini Sogol
Editore: libreriauniversitaria.it
Collana: Nuovi pensieri
Data di Pubblicazione: Ottobre 2010

Una mappa delle idee di Daniel Pink sulla motivazione

 “C’è una discrepanza tra ciò che la scienza conosce e ciò che le imprese fanno!” – D. Pink
La dottrina di Daniel Pink, laureato in legge a Yale ed ora autore famoso di tematiche di business, riflette sui premi e gli incentivi ai lavoratori e sui modelli di motivazione, contribuendo alla definizione di nuovi riconoscimenti alla Direzione Risorse Umane da parte dei membri della business community.

Come autore D. Pink ha pubblicato quattro libri: Free Agent Nation; The Future of Working for Yourself; A Whole New Mind; Le Avventure di Johnny Bunko e, il più recente Drive, pubblicato anche in italiano.

In Drive Pink dedica tutta la sua attenzione a ciò che egli ritiene essere  i tre elementi costitutivi della partecipazione e della motivazione dei lavoratori impegnati principalmente in attività non manuali: autonomia, padronanza e scopo.

Autonomia: il pensiero di Pink è che, consentendo ai lavoratori di scegliere come, quando ed eventualmente con chi svolgere il proprio lavoro, si aumenta il senso di appartenenza all’azienda e le mansioni affidate vengono svolte con più creatività. Le scelte  fatte dal dipendente hanno quindi un maggiore impatto sul risultato finale e il dipendente è partecipe del successo delle proprie attività. Usando la nostra discrezione questo ci consente di prendere decisioni utilizzando un quadro familiare o conoscenze che possono essere state utilizzate con successo per superare situazioni difficili in passato. Autonomia significa spendere meno tempo nell’imparare a come resistere a metodi imposti o inadeguati.

Al contrario, forme di motivazione tradizionali (soprattutto incentivi economici) tendono ad affievolire la motivazione dei lavoratori e non li aiutano a sentirsi parte dell’organizzazione.
Essenzialmente, per Pink, gli esseri umani cercano di trascendere il loro stato attuale, e questo desiderio spesso si manifesta in attività che si svolgono al di fuori delle ore di lavoro. Prendiamo l’esempio di un “body builder”. Lui/lei ha una visione del proprio futuro e lavora meticolosamente per scolpire il proprio corpo nella forma desiderata. Per tutti i differenti gradi di sviluppo del proprio corpo, il culturista è guidato dall’immagine trascesa di sé. Ciò lo incoraggia ad utilizzare pesi più pesanti, imparare nuovi esercizi, apportare modifiche radicali alla propria dieta.
Il punto centrale della teoria di Pink è il concetto che la dedizione di un dipendente verso il proprio lavoro è favorita dal dare senso ad uno scopo.

Citando molti studi accademici, Pink inquadra il senso delle ricompense intrinseche ed estrinseche. Per Covington e Mueller (2001), per esempio, “gli studenti sono suscettibili di essere collocati in una sorta di doppio rischio con l’uso delle ricompense estrinseche quando si tratta di promuovere e valorizzare l’impegno intrinseco verso ciò che stanno imparando. Non solo gli studenti possono essere distratti dal soddisfare gli interessi già stabiliti, quando vengono ricompensati per i loro sforzi, ma se ricompense estrinseche sono offerte come stimolo per intraprendere un compito, interessante o meno, l’obiettivo diventa guadagnare l’incentivo, non l’apprendimento.”

Una volta che un dovere è incentivato finanziariamente, il valore intrinseco del lavoro è svalutato e il messaggio che può arrivare al dipendente è che gli si chiede di svolgere un compito che il datore di lavoro stesso riconosce essere in possesso di nessuno o poco valore personale per il dipendente.

Naturalmente a Pink non sfugge che, per avere una buona motivazione, è fondamentale in ogni caso avere soddisfatto anche economicamente i bisogni di base di chi lavora. Inoltre, lui per primo, tende a dimostrare che in molti casi, soprattutto quando i compiti sono semplici e routinari e non hanno bisogno di molta creatività, un incentivo economico o la possibilità di essere sanzionati, possono migliorare le prestazioni dei lavoratori.

Recentemente Pink ha delineato una nuova era, “l’età concettuale”, che a suo avviso dominerà le future tendenze di business.
Pink è convinto che tre tendenze imprenditoriali prevalenti porteranno ad una nuova era di sviluppo organizzativo, queste sono: automazione,  abbondanza di prodotto e outsourcing.
Egli ipotizza che le attività ripetitive possano essere esternalizzate, creando molti posti di lavoro basati sul pensiero creativo. Inoltre il mercato di molti prodotti è stagnante e vi sono poche aziende in grado di creare innovazioni che possano rappresentare una rottura rispetto al passato. Riconcettualizzando quindi ogni sorta di affare nell’età concettuale il successo arriverà alle aziende in cui i dipendenti sono capaci di  applicare il pensiero laterale alle proprie attività.

Ciò mi porta a concludere che, rapidamente, arriverà il tempo in cui sarà necessario riconcettualizzare la funzione delle Risorse Umane. La misura delle risorse umane del futuro sarà ispirata dalla capacità di distribuire nuove forme di premi e segnare l’inizio di una rete di pensatori laterali, risolutori di problemi e creatori di nuova prosperità.
01 Lug 2010

Morire di stress

France Télécom due anni dopo

 Spesso si associa lo stress all’idea di un malessere omnicomprensivo, un disturbo talmente generico da non essere nemmeno curato. Eppure il fenomeno stress da lavoro correlato è tutt’altro che un effetto collaterale di poco conto. E’ un disagio che parla di difficoltà esistenziali, di alienazione professionale, di mortificazione umana. E a volte, anche di suicidio. 
La sicurezza sul lavoro, lo sanno tutti, non è solo una questione di caschetto giallo in testa. L’attenzione all’equilibrio psicologico e al grado di soddisfazione di un lavoratore non è meno importante della sua incolumità fisica. Ma quanto è percepibile? Quanto è gestibile, monitorabile? Certamente ogni occupazione comporta fatica e con essa un sovraccarico di tensione mentale di cui fa le spese il sistema nervoso. Ma qual è la soglia di allarme oltre la quale la corda si rompe?

Gli esperti spiegano che lo stress da lavoro correlato è uno squilibrio che ha luogo quando il lavoratore non si sente in grado di corrispondere alle richieste avanzate dalla sua azienda. Il disagio in genere è accompagnato da disturbi o disfunzioni di natura fisica, psicologica o sociale, che possono raggiungere livelli anche seri. Secondo alcune stime, in Italia un lavoratore su tre afferma di soffrire di stress, tanto che oltre un giorno di malattia su due avrebbe come causa – diretta o indiretta – proprio questa patologia. La questione è talmente seria che un decreto legislativo, il n. 81 del 9 aprile 2008 (in particolare nell’art. 28 comma 1 “Oggetto della valutazione dei rischi”) si occupa di regolarne ambito, rimedi e sanzioni.
Per farsi un’idea del problema, e soprattutto per individuare delle possibili soluzioni, può essere utile osservare da vicino un precedente storico, accaduto di recente, di casi diffusi di stress da lavoro correlato all’interno di un’azienda. Parliamo del piano di mobilità dei dipendenti attuato dal gruppo France Telecom tra il 2006 e il 2008. Un provvedimento che fu all’origine di un tale malessere all’interno del personale dell’azienda da far registrare ben 44 suicidi tra i lavoratori francesi, in soli due anni.
“Tutto è nato con il piano di riordino della società cominciato nel 2002 per opera del supermanager Thierry Breton – spiega Luigi Mencarelli, consulente specializzato nel campo delle risorse umane e dell’accompagnamento del cambiamento, in Francia da molti anni – Il nuovo PDG era stato incaricato dal governo di Parigi di risanare le casse del gruppo, gravate da 70 miliardi di euro di debiti accumulati durante il settennato di Michel Bon: una gestione rimasta inguaiata nella bolla di internet e strozzata dalla politica di acquisizioni pagate “cash” per evitare ogni rischio di privatizzazione”.
L’uscita dall’indebitamento portava con sé l’amaro dato di fatto: 22 mila esuberi nel personale. Molti di questi erano fonctionnaires, ovvero impiegati pubblici intoccabili e con contratto blindato. E’ toccato a Louis Pierre Wenes, diventato direttore generale per la Francia sotto la presidenza di Didier Lombard, trovare il modo di far quadrare i conti con ogni mezzo.
E infatti il piano NEXT, da lui lanciato nel 2006 e chiuso nel 2008, raggiunse l’obiettivo di bilancio: debito ridotto del 25%, costi razionalizzati, numero dei dipendenti tagliato fino al 39% e dividendi recuperati. Ma il vero prezzo da pagare fu un altro.
Continua Mencarelli: “Cuore del piano NEXT era il famoso TTM, o Time To Move, il capitolo sulla mobilità del personale: una serie di strategie radicali di ristrutturazione delle risorse umane, che si rivelarono ben presto alienanti. Wenes imponeva ai lavoratori cambiamenti forti e repentini nei loro incarichi, incoraggiando di fatto i fonctionnaires a licenziarsi. La politica del Time To Move divenne il terrore dei dipendenti France Télécom, tanto che l‘acronimo TTM fu sarcasticamente ribattezzato Tire-Toi Maintenant, ovvero ‘togliti dai piedi subito”.
Chi non fu in grado di andarsene, ebbe vita dura.
In pochi mesi vennero chiusi, tra gli altri, diversi centri di assistenza tecnica, e i dipendenti furono costretti a trasferirsi in altre città del paese per svolgere mansioni totalmente nuove. Non furono pochi, ad esempio, i casi di tecnici e specialisti “riciclati” da un giorno all’altro nei call-center, con turni massacranti e obiettivi di vendita impossibili da rispettare.
Nel 2007 si iniziarono a registrare i primi suicidi: 17 in un solo anno. Subito Wenes dispose un’indagine interna, ma l’esito definì “fisiologici” quei casi. Perciò decise di non prendere provvedimenti malgrado le crescenti proteste dei sindacati. 
Il management di France Télécom insomma sottovalutò il fenomeno, e quando si rese conto dell’errore fu troppo tardi. Il numero di dipendenti che si tolse la vita l’anno seguente raddoppiò. Spinto dall’opinione pubblica, il governo Fillon pretese l’avvio di un’indagine sul clima organizzativo all’interno dell’azienda. Attraverso decine di migliaia di testimonianze, i lavoratori denunciarono gli enormi disagi del piano di mobilità e l’inadeguatezza della direzione delle Risorse Umane: lo stress da lavoro correlato stava logorando il capitale umano del gruppo. Nel 2009 altri 23 suicidi portavano a oltre 40 il numero di morti per “mal di lavoro”.
In pochi mesi furono sostituiti i vertici di France Télécom. Saltarono sia Wenes sia Lombard, sebbene quest’ultimo perse il titolo di Direttote Generale conservando la Presidenza non operativa. Via anche il Direttore delle Risorse Umane Olivier Barberot. Immediatamente furono individuate soluzioni per cambiare rotta al più presto.
Le scelte intraprese dalla gestione del nuovo DG Stéphane Richard furono sostanzialmente cinque:
  1. Sospensione di tutte le mobilità forzate, individuate come causa primaria del disagio.
  2. Riforma della gestione del personale. Da “mero contabile” a professionista del capitale umano, vera e propria interfaccia accessibile e dialogante per i dipendenti.
  3. Formazione continua e gestione attenta dei percorsi professionali dei dipendenti. Nuove regole per impedire situazioni lavorative “ingessate” e promozione contratti con spazi di evoluzione delle competenze.
  4. Nascita di “indicatori di disagio”, un sistema di feedback che registri eventuali condizioni di stress da lavoro correlato.
  5. Coaching di una nuova classe di manager in grado di gestire le aree più a rischio del gruppo. I dirigenti devono essere in grado di “sentire puzza di bruciato” prima che scoppi l’incendio.

 Il caso France Télécom è senza dubbio il miglior esempio negativo di come lo snaturamento di una gestione delle Risorse Umane, priva di sensori sulla qualità del lavoro, possa rivelarsi fallimentare. Gli aspetti relativi al grado di soddisfazione dei dipendenti di un azienda e ai possibili rischi di stress da lavoro correlato sono comunque un terreno ancora da approfondire, e forse mai preso abbastanza in considerazione. La strada è tutta da percorrere. Senza stress, ma con leale determinazione e un pizzico di umanità.

Abbiamo chiesto a Mr. Yaprak, professore di Marketing and International Business alla Wayne University di Detroit – USA, di darci la sua opinione sul caso FIAT, in particolare dal punto di vista organizzativo.
Di seguito il testo dell’intervista.

1.    Sergio Marchionne (Fiat’s CEO) has recently suggested that Fiat could well relocate its headquarters and some of its manufacturing to the US. How might this affect Fiat’s ability to operate as a global player in the future?
Placing Fiat’s headquarters in the US (presumably in the Detroit metropolitan area) would place Fiat at the epicenter of the world’s auto industry. This will allow it to sense market and industry trends much more quickly than it is now able to do. It would also give Fiat the opportunity to build relationships with the other major auto industry players, especially in terms of the North American sphere of the auto industry. Major organizational learning benefits would accrue to Fiat as a result of this, presumably raising Fiat’s ability to operate much more effectively as a global player in the future.
Benefits that will accrue to Fiat from relocating its manufacturing to the US are not as clear, however. While I believe that US manufacturing workers deliver, in general, greater value when compared to their counterparts in the other parts of the world, their knowledge-based advantage has been eroding steadily during the past decade or so while their wages have kept pace at their previous levels. Thus, US manufacturing workers continue to be more expensive for the value they deliver (from a per-hour-productivity perspective) when compared to their developing country counterparts. This, of course, is also true for the comparison between European (especially German) manufacturing workers vs manufacturing workers in the emerging market countries. This is why manufacturing work has been shifting from the developed, industrialized countries, such as the United Statesand Germany, to the so-called emerging markets, such as Chinaand India, and even to the developing countries, such as Egyptand Vietnam.
2.    After significant changes to its manufacturing and corporate strategies Fiat has bounced back from the financial turmoil the group found itself in a couple of years ago. What does this type of managerial thinking tell us about companies like Fiat and how will Fiat’s renaissance change the way in which other multinational national companies do business?
Financial and managerial difficulties are cyclical in business, and all businesses experience these to one degree or another at one time or another. These difficulties are primarily a function of unexpected changes in the environment, sometimes a result of technological or market-based turbulence. Pulling out of these difficulties requires, first and foremost, foresight, courage, and commitment on the part of the leadership of the company. Wise allocation of resources, faster learning, passionate investment into innovation and talented people, and determined attention to continuous improvement based on market feedback are also important ingredients of a renaissance. Other MNCs can learn from the rebirth of Fiat and others who have lived through these by planning for unexpected changes in their environment (for instance, through scenario building and analysis), and framing into place alternative coping mechanisms to help them revive themselves when they are faced with these difficulties.
3.    Other than becoming more profitable, how might Fiat benefit from merging or acquiring other companies? Will the experience change Fiat’s current practices?
Companies merge with, acquire, or partner with other firms to access, internalize, and appropriate resources they do not possess or buy as inexpensively in the open market. The most valuable resources today are competencies (ie, faster learning, faster innovation, faster to market, more capable market responsiveness, and so on), and skills (ie, visionary leadership, greater managerial talent in decision-making (capable leadership?), more market-responsive innovation, greater insight in market-sensing, and so forth). The faster Fiat is able to internalize and appropriate competencies and skills such as these, the more capable it will become in upgrading its operational and managerial practices. In the longer term, these new organizational habits will norm into more productive resources and will breed increased productivity and performance in many more dimensions of business than profitability.
15 Mar 2010

Dopo il caso FIAT

Relazioni sindacali dopo il caso Fiat – Mirafiori 
Il Dibattito


1.   La tesi di Marchionne è che occorre guardare allo sviluppo industriale italiano con occhi radicalmente nuovi, poiché le vecchie logiche – dice – non consentono di stare al passo con le sfide dell’economia globale, in primis quelle che arrivano dai paesi emergenti. Che ne pensa?
C.        La valutazione di Marchionne, a proposito della concorrenza degli altri paesi, non è di per sé sbagliata. Il problema sono le scelte che lui adotta: scelte che sembrano non andare in direzione di una reale competitività di Fiat nel nostro paese. Non a caso, come sta emergendo, Marchionne ha scelto di andar via dall’Italia.
Il problema della Fiat oggi non è, come sembra, quello di abbattere il costo del lavoro. Il difetto non è nel sistema di produzione, bensì nel fatto che l’azienda non è più in grado di vendere le sue auto sul mercato: è una questione di capacità di vendita, di qualità dei modelli, non di produzione.
T.         Certamente occorre innovare. Ma l’innovazione non deve riguardare solo i rapporti di lavoro, bensì anche le strutture organizzative, produttive e tecnologiche. Ognuno deve fare la sua parte. Fiat ha certamente dei problemi con la Fiom, però deve ancora dimostrare di essere all’altezza dell’innovazione di prodotto.
Fino ad ora abbiamo qualche dubbio che sia così: lo stesso Marchionne riconosce le difficoltà di rendere competitivi i suoi prodotti.
2.    Secondo la Fiom, contraria all’accordo, la Fiat pretenderebbe la rinuncia da parte dei lavoratori di alcuni diritti fondamentali in nome di una maggiore produttività. (esempio: turni fino a 6×3 dal 5×2 attuale, pause ridotte a 30 minuti dai 40 attuali, tasso assenteismo al 3,2% con mancata retribuzione giorno precedente riposo, niente elezione delegati sindacali perché fuori contratto nazionale e stop sciopero contro intesa pena licenziamento) Si tratta davvero di una “stretta” sui diritti che vìola lo statuto dei lavoratori? Quali e in che termini, ad esempio?
C.        C’è stato semplicemente un ricatto nei confronti dei lavoratori, tutto qui. Si è detto loro: o ti sta bene, o perdi il tuo posto di lavoro. Non c’è stato nessun accordo. Se poi vogliamo parlare della questione organizzativa, bisogna dire che sul tavolo c’erano diverse proposte. Anche da parte di Fiom. La discussione si poteva tenere. Ma non c’è stato modo di discutere sul modello organizzativo. E’ stata un’imposizione. Per questo Fiom e Cgil hanno scelto una posizione di scontro: per ritornare ad avere un contratto nazionale anche in Fiat.
T.         Intanto non è detto che sarà così. Da un lato ci sono sue dichiarazioni, poi in parte smentite, e dall’altro c’è l’interlocuzione con il governo che ha segnalato la preoccupazione che l’Italia perda un importante insediamento come quello della Fiat. Marchionne non può certo far finta di dimenticare gli anni di incentivi da parte dello Stato alla Fiat. Che poi la globalizzazione richieda accordi internazionali e anche magari la nascita di diversi centri produttivi, lo sappiamo. Ma questo non può portare alla rinuncia per il nostro paese di un importante pezzo di industria.
3.    Il modello-base di accordo sorto dopo il caso Fiat, ovvero la nascita di newco svincolate dal contratto nazionale e quindi da Confindustria, sembra stia prendendo piede anche in altre realtà. E’ in atto un cambiamento senza precedenti?
C.        L’80 per cento delle imprese italiane conta meno di 50 dipendenti. Senza un contratto nazionale, in grado di garantire un salario equo e più in generale di regolare il mercato del lavoro, sarà una giungla. Se ogni azienda si fa il suo contratto, si troverà sempre un piccolo sindacato più vicino agli interessi dell’imprenditore. A quel punto sarà una competizione al ribasso tra imprese, per chi fa il contratto più vantaggioso per ridurre il più possibile i costi del lavoro. Per non parlare del fatto che Marchionne non intende svelare il piano industriale. Quale accordo sindacale potrà mai nascere se i lavoratori non sanno quale sorte toccherà agli stabilimenti italiani?
T.         Sono convinto che questa situazione richieda sacrifici. Se c’è un assenteismo forte, bisogna pure far qualcosa, giusto? Io penso che le tesi della Fiom siano inaccettabili. Semmai quello che deve fare il sindacato è dire all’azienda: va bene, noi facciamo i sacrifici ma tu dai delle garanzie sull’innovazione, sul futuro. E poi quando c’è la ripresa si deve pretendere la propria parte, proprio come sta facendo il sindacato tedesco.
4.    Il caso Fiat-Mirafiori, infatti, ha amplificato la frattura all’interno dell’universo sindacale. Il 23 dicembre tutte le organizzazioni sindacali eccetto la Fiom-Cgil hanno firmato l’accordo.  E i “no” al referendum di Mirafiori sono arrivati principalmente dagli operai, per i quali le nuove regole proposte da Marchionne porterebbero maggiori sacrifici. Non considera questo aspetto una crepa nel sistema stesso della rappresentanza sindacale?
C.        E’ una crepa per il paese intero, non per il solo universo sindacale. Se si spezza il sistema di rappresentanza sindacale all’interno di un’azienda, si perde un pezzo di democrazia nel paese. La questione non si ferma davanti ai cancelli della Fiat, ma riguarda tutti.  Non ha senso pensare a chi ha vinto e chi ha perso in questo scontro sul caso Fiat: in ballo c’è la democrazia e la coesione sociale.
T.         Purtroppo i rapporti fra sindacati sono difficili sotto vari aspetti. E già questo è un male, perché il sindacato di per sé viene indebolito dalle condizioni della competizione mondiale. Poi, se si divide, è peggio ancora. Non a caso una delle forze del sindacato tedesco è quella di essere unitario.
Il caso Fiat è particolarmente grave, perché come ho detto in molte altre situazioni territoriali, con aziende di vario genere, non siamo a questo punto. Altrove si continuano a fare accordi unitari.
Va detto però che la Fiat c’ha messo del suo, perché evidentemente non ha curato abbastanza la partecipazione e il coinvolgimento dei lavoratori. Le aziende che hanno ottenuto risultati buoni senza traumi, sebbene con sacrifici, li hanno ottenuti perché sono state attente alla partecipazione. Mi auguro che alla fine prevalga questo tipo di logica.
5.    Ai primi di Febbraio 2011 c’è stata l’intesa a Wolsfsburg per il rinnovo del contratto a 100 mila lavoratori Volkswagen. Ig Metall ha conquistato un 4 per cento di fatto (3,2% + una tantum) di aumenti salariali per 16 mesi. Negli ultimi anni l’azienda ha ottenuto sacrifici dai lavoratori per aumentare la produttività del 10% e superare la crisi: settimana corta, salari ridotti. In cambio, ha tenuto i posti di lavoro in Germania (sebbene con anche manodopera dell’est) e entro 7 anni punta a 40 mila nuovi dipendenti per superare la Toyota (35 mila di questi in Cina). Una delle carte vincenti di VW pare sia stata proprio la cosiddetta “cogestione”.
C.        Be’, se vogliamo prendere il modello Germania allora prendiamolo tutto, non “a pezzettini”. Lì c’è una legge che vincola le imprese a far sì che nei consigli di sorveglianza vi sia una rappresentanza sindacale.  Noi siamo disponibili ad una discussione su questo punto, ma con il clima che c’è oggi in Italia è ben difficile che si possa arrivare a discutere di leggi del genere. Diciamola tutta: in Germania hanno gli stipendi doppi che in Italia, il piano industriale è stato presentato a dovere, hanno la qualità dei prodotti, hanno orari che arrivano al massimo alle 36 ore, e soprattutto hanno fatto un accordo che comprendeva la garanzia occupazionale in cambio dei sacrifici.
Questo non c’è nell’accordo Fiat. Anche chi ha votato sì il 14 febbraio non ha alcuna garanzia del posto di lavoro: tant’è vero che sono in cassa integrazione.
T.         In Europa e anche in Italia in questi ultimi tempi sono state siglate centinaia di buone intese che hanno comportato uno sforzo nell’impegno di lavoro (meno pause, più turni ecc). Il caso VW è solo uno dei più noti. La stessa Fiom ha fatto molti accordi senza che venisse sollevato tutto questo polverone.
Il punto è che sono necessarie rinunce, perché le condizioni di lavoro cambiano. Per esempio le regole sulla malattia sono mutate più volte nel tempo. E si potrebbero fare altri esempi.
Secondo me non è necessaria la “cogestione”, è sufficiente che l’azienda promuova delle serie modalità di partecipazione con i lavoratori.


12 Mar 2010

Il caso FIAT


Audizione dell’Amministratore Delegato di Fiat Sergio Marchionne davanti alle Commissioni riunite Attività Produttive e Trasporti della Camera dei Deputati

Nessuna scorrettezza, né clausole “cinesi” che penalizzino i lavoratori. Le nuove iniziative di Fiat hanno un solo obiettivo: migliorare la competitività per stare al passo con il mercato e garantire un futuro stabile ai lavoratori. Ancorata alle vecchie logiche, Fiat perdeva quattro milioni di euro al giorno. Ora, invece, per l’Italia ci sono progetti ambiziosi.
Davanti ai deputati delle due Commissioni Attività Produttive e Trasporti riunite alla Camera il 15 febbraio scorso, l’Amministratore Delegato di Fiat Sergio Marchionne ha tracciato questi punti fermi come linee guida del management sul futuro dell’azienda, rispondendo così alle polemiche che da due mesi investono il Lingotto. Davanti ai deputati, il manager ha poi chiosato: “Io sono rimasto a fare il metalmeccanico”.
  
Nell’ottica di affrontare secondo diversi punti di vista il tema dei rapporti sindacato/azienda dopo il caso Fiat-Mirafiori, ecco una sintesi degli argomenti usati da Marchionne redatta dall’Osservatorio. L’estratto segue lo schema dell’intervista doppia a Vincenzo Colla e Tiziano Treu. Le parole del numero uno del Lingotto sono riassunte dal suo intervento alla Camera.
  
1. Tema: i cambiamenti per affrontare sfide dei nuovi mercati emergenti
E’ sotto gli occhi di tutti la necessità di un cambiamento, indispensabile elemento per sopravvivere nel mercato di oggi. L’obiettivo di Fiat è quello di assicurare ad azienda e lavoratori prospettive solide. Grazie all’alleanza con Chrysler il gruppo è diventato un “produttore completo”, ma non ha nessuna intenzione di abbandonare l’Italia. Certo il paese paga un forte deficit di competitività e questo è una minaccia, perché comprime redditi e salari. Il piano “Fabbrica Italia” non era però un atto dovuto e non è stato chiesto alcun aiuto di Stato. Quindi, se ci saranno le condizioni, il cuore (legale) di Fiat resterà in Italia. Il gruppo avrà comunque più teste, anche all’estero.
2. Tema: l’accordo di Mirafiori/Pomigliano e i diritti dei lavoratori
In quegli accordi non è presente nessuna clausola che penalizzi i lavoratori. Fiat non ha mai chiesto condizioni di lavoro “cinesi o giapponesi”, ha solo chiesto di poter contare su condizioni minime e di competitività. Rimangono anzi inalterate tutte le condizioni positive che sono previste dal contratto collettivo e da tutti i trattamenti riconosciuti ai dipendenti. Quegli accordi servono solo a far funzionare meglio la fabbrica, senza intaccare nessun diritto.
3. Tema: il modello-base per contratti industriali con la creazione di newco.
Il dibattito su Fiat è stato imbevuto di molta politica e molta ideologia, ed è stato viziato di scarsa conoscenza dei fatti. Su Cassino e Melfi non c’è urgenza di intervenire perché hanno prodotti ben accolti dal mercato. A Pomigliano entro fine anno si produrrà la nuova Panda, mentre per lo stabilimento di Termini Imerese Fiat è disponibile a collaborare ma solo se viene risolto il problema occupazionale e tutti i lavoratori riceveranno una lettera di assunzione da parte della nuova proprietà.
4. Tema: il rischio rottura dell’equilibrio sindacale e la minaccia di una crisi sociale
E’ necessaria la condivisione del piano Fabbrica Italia da parte dei sindacati. Nessuno ha mai detto che “il problema è la Fiom”. Ad ogni modo, questa audizione in Parlamento è la dimostrazione del rispetto che Fiat ha per questo Paese e le sue istituzioni, nonché il segno della fiducia che il Lingotto ripone nel futuro dell’azienda e dell’Italia. Nessuno può accusare Fiat di comportamenti scorretti, di vivere alle spalle dello Stato o di voler abbandonare il Paese. Sono in cantiere progetti ambiziosi che partono dall’Italia.
5. Tema: l’accordo Volkswagen e gli aumenti salariali agli operai tedeschi
Se Fiat riuscirà a portare l’utilizzo degli impianti all’80%, è pronta ad aumentare i salari portandoli ai livelli della Germania. Il passo successivo sarà la partecipazione dei lavoratori agli utili dell’azienda. Però prima di parteciparli, gli utili, occorre farli. Da metà 2011 usciranno 7 nuovi modelli di auto, e in 5 anni partiranno 34 nuovi veicoli commerciali. L’investimento complessivo in tre anni sarà di 14 miliardi di euro. Fiat vuole restare e investire in Italia, ma ha posto una serie di condizioni per continuare ad essere presente nel Paese.
Il link del video integrale dell’audizione di Sergio Marchionne alla Camera:

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Polo Nord, piramidi e iPad
Michele Pontrandolfo, recentemente intervistato su perché avesse deciso di tentare la traversata in solitaria verso il Polo Nord, ha risposto che erano molti anni che la stava progettando. Una risposta che non soddisfa fino in fondo la nostra curiosità sul perché sia disposto a compiere un’impresa così difficile, faticosa e pericolosa (per la verità il suo sito fornisce qualche indizio in più). Ma da quali motivi è veramente mosso? Cosa motiva un uomo così? Come imparare da storie simili per applicare principi analoghi nelle nostre organizzazioni?

Diversi sono i cambiamenti di costumi e valori che accompagnano i nostri tempi, che uniti all’innovazione tecnologica, stanno modificando stili di vita e di lavoro. Seppure le generazioni si stiano rapidamente alternando, giovani che hanno imparato a giocare con giochi elettronici prima di sapere leggere e scrivere si confrontano con padri, insegnanti, datori di lavoro, per cui il massimo dell’innovazione era la televisione in bianco e nero e la macchina da scrivere elettronica. In una società abbastanza gerontocratica come la nostra, italiana, la maggior parte dei centri decisionali e di potere risente di questa differenza generazionale, con quello che comporta in termini non solo di competenze, ma anche di visione del mondo e di assunti sulla natura umana. Se guardiamo a cosa ci prospetta il futuro ben rappresenta il tema Ignazio Visco della Banca D’Italia nell’ultimo numero de Il Mulino quando illustra come competenze emergenti dl XXI secolo “l’esercizio del pensiero critico, l’attitudine al problem solving, la creatività…”

Sembra però che molte delle modalità con cui sono gestite le organizzazioni oggi sono ancora figlie del fordismo, a quasi ormai cento anni di distanza dalla nascita del management scientifico. Molti processi organizzativi, che hanno come finalità quella di governare la relazione tra individuo e organizzazione e in particolare la motivazione dei singoli, risentono ancora di quella visione del mondo.
Una visione basata su un modello di sviluppo fatto da fabbriche ed operai, che attraversa il pensiero e l’azione manageriale, a partire dalla decisione di Ford di aumentare i salari ai propri operai in modo significativo, al più recente accordo sindacale Luxottica, solo per fare qualche esempio. E’ ancora figlia di quella visione anche fornire l’iPad a venditori e manager (come altre aziende stanno facendo)? E questo aiuta a lavorare di più e meglio?

Tema non nuovo, quello della motivazione, se anche chi costruiva le piramidi, come disse una volta acutamente Chicco Capucci, doveva certamente porsi il problema di come dosare frustate e cibo per fare lavorare schiavi e operai.
Recentemente la questione motivazione è stata riportata all’ordine del giorno dal lavoro di Daniel Pink, in particolare Drive, che ha il merito, a mio avviso, di mettere nuovamente al centro dell’attenzione la relazione tra società, assunti sull’uomo e azioni gestionali. Senza concettualizzazioni particolarmente nuove, basandosi però su studi ed esperimenti, Pink ci induce nuovamente a riflettere su come ottenere impegno ed adesione, tenendo conto sia delle differenze tra compiti, ruoli, organizzazioni, sia di come oggi il mondo stia cambiando e sempre più il differenziale competitivo stia nella creatività e nell’innovazione, più che nella produzione.

E’ soprattutto sul ruolo del denaro e delle ricompense monetarie che il suo sguardo ci sfida a riconsiderare i nostri presunti. Facendoci inevitabilmente porre le domande che ogni esperto del personale spesso si pone: quanto funzionano i sistemi di incentivazione? cosa ottengono veramente? Quanto contribuiscono ad aumentare il valore di ciò che si produce? Come utilizzarli al meglio?
Lo sguardo di Pink è pragmatico e prescrittivo, nello stile americano di chi, individuato il problema, porge anche la soluzione.
Il nostro, più mediterraneo e speculativo, è disposto a sostare di più nell’incertezza e a considerare variabili più situazionali ed anche emotive, quando si tratta di proporre soluzioni. 

Ma su una cosa non possiamo non concordare. Se la natura umana conserva tratti antichi e motivazioni anche semplici, siamo entrati in un’era nuova, digitalizzata, interconnessa, informata. Dove le recenti rivolte in Nordafrica e Medio Oriente sono guidate da giovani che comunicano con Twitter.  Dove convivono piramidi da costruire e imprese innovative e dove l’operaio della piramide moderna la sera, a casa, spesso legge con l’iPad.
Si può non porsi domande nuove per problemi antichi?Si può non chiedersi come ripensare la nostra convivenza organizzativa? Si può non interrogarsi su cosa veramente motiva le persone che lavorano con noi? Al di là degli stereotipi.

I risultati di una survey globale
Si riporta un modello emergente da una survey globale che viene realizzata ogni cinque anni sul tema. Il Round V di questa survey, che si è chiuso nel 2008 e i cui risultati sono stati pubblicati nel 2009, ha avuto come rispondenti più di 10.000 operatori della Funzione HR in tutti i paesi del mondo. Questa survey rappresenta il punto di osservazione più globale, strutturato e accreditato sulle evoluzioni della Funzione.
Di seguito si propone il modello emergente, i cui diversi elementi costituivi saranno via via illustrati.

Il Round IV di questa survey, realizzatosi nel 2004, haaffermato che lo specialista HR deve essere in grado nel tempo di ricoprire più ruoli, anche contraddittori, che possono essere descritti sulla base di due variabili:
          l’orientamento strategico /al lungo termine o operativo/al breve termine;
          l’attenzione  alla gestione dei processi o delle persone.
Dalla matrice costruita sulla base di queste variabili possono essere ricavati i seguenti ruoli:
  • Business Partner (orientamento strategico/attenzione ai processi): il compito principale dell’uomo HR, quando agisce in questo ruolo, è quello di allineare il contributo delle risorse umane con quanto richiesto dalla strategia di business dell’impresa;
  •  Esperto Amministrativo (orientamento operativo/attenzione ai processi): in questo caso il ruolo è quello di progettare e gestire sistemi (procedure, metodi, strumenti informativi) di gestione delle risorse umane efficaci e efficienti;
  • Avvocato del Personale (orientamento operativo/attenzione alle persone): questo ruolo riguarda la gestione dell’impegno e del contributo dei dipendenti all’organizzazione. Significa assistere quotidianamente il personale dell’impresa al fine di verificare il suo livello di soddisfazione nei confronti delle condizioni di lavoro in cui opera. Alla base di questo ruolo sta il presupposto che la soddisfazione del personale ha un impatto positivo sulla produttività degli individui e, in ultima analisi, sulle prestazioni dell’impresa;
  • Agente del cambiamento (orientamento strategico/attenzione alle persone): il quarto ruolo implica che l’uomo HR sia coinvolto nei processi di cambiamento dell’organizzazione e sappia identificare e superare le resistenze al cambiamento del personale oltre che diffondere competenze di flessibilità e adattamento.

Il modello di funzionamento della DRU emergente dal Round V, ancora sottende una Direzione delle Risorse Umane che all’interno dell’organizzazione “gioca contemporaneamente più ruoli”. Tali ruoli sono legati a due direttrici strategiche: la direttrice Business, che rappresenta l’attenzione che la DRU presta a tematiche di lettura del mercato e contributo alla formulazione della strategia aziendale; la direttrice People, che rappresenta l’attenzione che la DRU presta allo sviluppo delle persone che abitano l’organizzazione. Queste due direttrici si incrociano con una gestione delle relazioni interpersonali interne ed esterne, una gestione dei processi e sistemi HR dell’organizzazione, una gestione consapevole delle “competenze collettive” dell’organizzazione. L’incrocio delle due direttrici con queste variabili dà vita al modello di seguito rappresentato:
 I ruoli esplicitati dal modello sono di seguito sintetizzati e per ognuno di essi vengono forniti alcuni esempi di attività connesse:
          Credible activist: raggiungere i risultati con integrità (che fa riferimento alla trasparenza e comprensibilità che le decisioni in ambito HR devono assumere agli occhi degli stakeholders interni ed esterni all’azienda); condividere le informazioni (essere aperti sia alla Business Community che alla comunità scientifica); costruire relazioni di fiducia (assumere il valore del feedback); svolgere HR con passione.
          Operational Executor: definire e sostenere processi e procedure; cogliere le opportunità offerte dalla tecnologia in ambito HR.
          Business Ally: “interpretare” il contesto socio-culturale e suoi impatti sulla forza lavoro dell’organizzazione; operare in una logica di filiera (prestare attenzione all’impatto delle pratiche HR a monte e a valle del punto della filiera in cui opera l’organizzazione); articolare una Value Proposition che abbia valore anche per le persone che operano nell’organizzazione (definire un codice etico di comportamento, trasformare la market value proposition in employees value proposition); sviluppare un’apertura mentale dell’organizzazione verso le opportunità offerte dalle nuove tecnologie a tutti i livelli dell’organizzazione.
          Talent manager and Organizational designer: curare e preparare i talenti dell’organizzazione attuali e futuri (conoscere chi sono, quali competenze devono sviluppare, quali traiettorie di carriera si aspettano); sviluppare i talenti (predisporre sistemi e occasioni di formazione sia formale che informale); “dare forma” all’organizzazione (portare, ad esempio, il “punto di vista della DRU” nei processi di riorganizzazione); sviluppare la comunicazione (sia verticale bottom-up e top-down che orizzontale, attraverso l’utilizzo delle tante tecnologie disponibili); disegnare coerenti sistemi di rewarding (allineare il sistema di rewarding alle sfide dell’organizzazione).
          Culture & Change steward: costruire una cultura aziendale condivisa e per quanto possibile formalizzata e sostenuta dal Top Management; facilitare il cambiamento; “personalizzare” e mettere in atto la cultura (collegare le scelte strategiche alla storia dell’organizzazione, premiare e celebrare i comportamenti coerenti con la cultura aziendale).
          Strategy architect: sostenere “l’agilità strategica” dell’organizzazione (prendere parte al processo di formulazione della strategia con un proprio punto di vista originale rispetto a quello del Top Management); includere il cliente a tutti i livelli dell’organizzazione (conoscere il cliente, partecipare a riunioni e visite commerciali).