Quando un’azienda decide di realizzare un evento, una trasformazione dell’attività routine, possiamo parlare di innovazione se tale evento o trasformazione implica la realizzazione di azioni o attività mai sperimentate prima.
Legacy è il nome dato alla summa delle esperienze che un’innovazione ha comportato in una organizzazione, o anche la totalità delle esperienze di una organizzazione durante un certo periodo di tempo.  Così possiamo parlare di legacy
della Bauhaus, della legacy dell’organizzazione che ha curato le Olimpiadi di Pechino, o della NASA che ha portato uomini sulla luna. Essa è un asset di un’azienda, o degli uomini e donne che la compongono.  La legacy è spesso ritenuta intangibile, in quanto è know-how, esperienza e saggezza. 

Innovare significa uscire dalla routine e trasformare le abitudini che guidano la maggior parte delle attività quotidiane di una organizzazione. Questo è un atto che non tutti apprezzano, e la difficoltà nell’innovazione consiste non nella difficoltà delle attività stesse, ma nel dover o voler cambiare le procedure o le abitudini a cui siamo assuefatti.
L’innovazione quindi comporta la consapevolezza di fare qualcosa di nuovo, di mai fatto in quelle stesse condizioni prima, e tale consapevolezza può essere percepita come qualcosa di piacevole o di fastidioso, di pesante. L’atteggiamento verso tale consapevolezza determina spesso la facilità o difficoltà dell’organizzazione di intraprendere grandi o piccoli cambiamenti nella sua attività. 
Un altro aspetto importante del tema consiste nella percezione ed atteggiamento verso l’esperienza acquisita o in via di acquisizione. Se stiamo sviluppando un programma di qualità, di Six Sigma o un nuovo prodotto o servizio, come organizzeremo la creazione di conoscenza che si accompagnerà alla nostra attività di sviluppo? 
Questo costituisce il tema della legacy che va affrontato da prima dell’inizio delle attività, e non solo dopo il compimento del progetto o programma, quando può essere troppo tardi raccogliere ed organizzare l’esperienza delle persone e dei teams che hanno sostenuto l’attività di progettazione o di miglioramento. 
Per esempio, se un progetto di nuovo prodotto o servizio viene affrontato da un gruppo di progettisti, unito ad altri provenienti da aree aziendali quali il marketing, la produzione, la distribuzione, come organizzeremo la diffusione o la sistematizzazione dell’esperienza e della conoscenza che è sempre il by-product del progetto?
Il tema della legacy costituisce da sempre, in modo esplicito o implicito, il tema del capitale intellettuale ed umano, che spesso viene valutato troppo imponderabile per essere espresso in dati concreti, ma esistono alcuni indici, quali il numero dei brevetti depositati in un anno dall’azienda, piuttosto che il numero delle collaborazioni di know-how richiesti da altri, che suppliscono alla mancanza di una procedura sedimentata come il bilancio contabile.  
La possibilità di attingere direttamente dalle persone implicate la loro esperienza è un asset intangibile che non sempre siamo pronti a capitalizzare. Le ricerche di vari accademici, quali il prof Nonaka della Hitotsubashi University di Tokyo, ci aiutano a distinguere metodi di passaggio di esperienza da singoli individui ai gruppi e poi a tutta l’organizzazione che ne trae beneficio.  Si chiama SECI il modello di Nonaka, dall’iniziale dei processi di passaggio di conoscenza ed esperienza: Socializzazione, Esternalizzazione, Codifica e Interiorizzazione.*
A ciascun processo corrisponde una attività di scambio di conoscenza basata sull’esperienza individuale iniziale, in cui il primo agente comunica, ovvero socializza ad altri (si pensi all’apprendistato o all’On-the-Job-Training) il proprio sapere e saper fare.
Ciò che è stato socializzato va poi esternalizzato e codificato, ovvero reso sistemico  nelle procedure operative di quell’azienda, consentendo di attingere alla conoscenza senza dover ogni volta richiamare la persona iniziale o il gruppo che aveva acquisito la prima esperienza.  L’ultima fase, l’interiorizzazione, comprende la capacità di apprendimento dei membri di tutta l’organizzazione nell’internalizzare la conoscenza e le capacità introdotte nel processo e diventare abile come i primi nel compiere le stesse attività. 
Si pensi alla capacità di un’addetta alle vendite su un treno: l’esperienza giapponese ha mostrato che vi possono essere varianze anche molto significative nel volume di vendita durante una singola corsa di un treno, dal punto A al punto B, di qualche centinaio di chilometri.  La venditrice migliore, spingendo un carrello pieno di snack e di bevande, compiva anche cinque volte il tragitto di andata e ritorno lungo le vetture del treno, mentre le venditrici peggiori ne facevano sono un paio, ma soprattutto il modo di percepire il bisogno dei passeggeri di acquistare il cibo e le bevande costituiva la differenza, oltre ai piccoli miglioramenti come preparare il resto in tasca prima ancora che il passeggero tiri fuori la banconota.  Levenditrici migliori sono quelle che nel primo giro osservano i potenziali clienti ed intuiscono che vi sono possibilità, tanto da offrire attivamente il prodotto anche personalizzando la vendita. Si narra di una venditrice così brava nella percezione che le si attribuivano anche un paio di occhi dietro la testa per vedere gli sguardi dei passeggeri dopo che lei era passata con il carrello.
Il compito che abbiamo consiste nell’organizzare e pianificare il passaggio di esperienza dai migliori o dai primi in ordine di tempo agli altri, e soprattutto nel motivare questo passaggio, che rischia altrimenti di disperdersi rapidamente nel flusso delle altre attività ed esperienze che l’organizzazione affronta tutti i giorni.  La motivazione ed il coinvolgimento sono ancora una volta il punto critico.

Ispezioni in materia di rapporti di lavoro. Il “nuovo” istituto della conciliazione monocratica: chiarimenti e indicazioni operative del Ministero del Lavoro.
La conciliazione monocratica è stata introdotta dall’art.11 del D.Lgs 124/2004 e regolamentata dalla Direttiva Ministeriale del 18 settembre 2008.
Recentemente il Ministero del Lavoro, rilevandone lo scarso utilizzo e volendo promuoverne la maggior diffusione, ha emanato la Circolare n. 36/2009, con la quale ha fornito chiarimenti ed indicazioni operative sui presupposti di attivazione dell’istituto e sulle modalità gestionali dello stesso.
Ecco in sintesi come funziona la conciliazione monocratica e quali sono le ipotesi di applicazione di tale istituto.

Campo di applicazione 
Quando il lavoratore si rivolge alla Direzione Provinciale del Lavoro (DPL) per denunciare irregolarità nella gestione e/o nello svolgimento del rapporto di lavoro, richiedendo così l’avvio di un’attività ispettiva da parte dell’Ufficio, la DPL, anziché procedere direttamente con l’ispezione, può avviare il tentativo di conciliazione sulle questioni segnalate dal lavoratore, qualora ravvisi l’esistenza di elementi per una soluzione conciliativa della controversia.
In tali casi, secondo la citata Circolare ministeriale, la DPLdeve necessariamente informare il lavoratore denunciante della possibilità di definire la controversia mediante conciliazione monocratica: l’eventuale dissenso del lavoratore non impedisce comunque alla DPL di convocare formalmente le parti per esperire il tentativo di conciliazione monocratica.
Ed infatti, come noto, l’Amministrazione non ha l’obbligo di dare necessariamente corso alla verifica ispettiva a seguito della mera denuncia del lavoratore, ben potendo rifiutare di perseguire situazioni che appaiano palesemente pretestuose, oggettivamente inattendibili o prive di ogni fondamento.
Laddove però la richiesta di intervento non appaia palesemente infondata, la Circolarechiarisce che la DPL, anziché procedere alla verifica ispettiva, deve proseguire in via assolutamente privilegiata” la definizione della vicenda segnalata tramite la promozione del tentativo ci conciliazione.
La DPL, viceversa, deve procedere direttamente all’accesso ispettivo limitatamente alle richieste d’intervento caratterizzate dalla denuncia di irregolarità significativamente gravi e incisive, vale a dire quelle che:
– rivestano diretta ed esclusiva rilevanza penale;
– interessino altri lavoratori oltre al denunciante;
– riguardino fenomeni di elusione particolarmente diffusi sul territorio di riferimento;
– abbiano ad oggetto esclusivamente profili di natura contributiva, previdenziale ed assicurativa.
Al riguardo, la Circolarechiarisce anche che il tentativo di conciliazione monocratica deve essere escluso solo laddove la richiesta di intervento riguardi direttamente fattispecie che integrino gli estremi di un reato (ad es. in caso di adibizione di lavoratrici madri a lavoro notturno, d’impiego di cittadini extracomunitari privi di permesso di soggiorno o di minori illegalmente immessi al lavoro), mentre risulta corretto il ricorso allo strumento conciliativo nei diversi casi in cui la fattispecie rappresentata potrebbe avere solo eventualmenteimplicazioni sul piano penale (ad es. lavoro nero in relazione alla omessa sorveglianza sanitaria).
Quando poi le richieste di intervento interessano altri lavoratori oltre al denunciante, l’Ufficio dovrà privilegiare il ricorso alla conciliazione monocratica laddove tale coinvolgimento sia solo eventuale o ipotetico. L’accesso ispettivo sarà viceversa dovuto laddove le irregolarità denunciate coinvolgano inequivocabilmente altri lavoratori e abbiano ad oggetto fenomeni di rilevante impatto sociale. Se, però, i lavoratori coinvolti sono tutti identificabili nominativamente si potrà procedere ad appositi tentativi di conciliazione monocratica attivati d’Ufficio sulla base delle indicazioni fornite dall’unico denunciante.
Conciliazione monocratica contestuale
La DPL può ricorrere anche d’ufficio allo strumento della conciliazione monocratica, quando nel corso di un accertamento ispettivo emergano “elementi per una soluzione conciliativa della controversia”.
Per tale ipotesi, denominata di “conciliazione contestuale”, il personale ispettivo è tenuto ad acquisire “il consenso delle parti”, mediante apposita verbalizzazione, anche successiva al verbale di primo accesso ispettivo. Tale consenso, peraltro, potrà essere reso separatamente, per iscritto, a mezzo lettera raccomandata o mediante posta elettronica certificata, facendo espresso riferimento al verbale di primo accesso ispettivo.
Modalità di svolgimento
Al tentativo di conciliazione, che si svolge presso gli Uffici territoriali del Ministero, le parti possono presentarsi personalmente, con o senza assistenza sindacale o professionale, oppure rappresentate da persone munite di apposita e valida delega a transigere e conciliare.
Nel corso della procedura conciliativa il funzionario della DPL indica alle parti le possibili conseguenze dell’avvio del procedimento ispettivo (effetti, tempistica, sanzioni, ecc.) ed illustra altresì i vantaggi che la soluzione conciliativa comporta (celerità, soddisfazione delle pretese, ecc.).
La Circolare chiarisce che è possibile pervenire ad una conciliazione monocratica se nell’accordo vi sia il riconoscimento di periodo lavorativo intercorso tra le parti. Non potranno, quindi, concludersi conciliazioni monocratiche che si risolvano nella corresponsione di una somma di denaro da parte del datore di lavoro a titolo meramente transattivo, in assenza del riconoscimento di un pregresso e/o attuale rapporto di lavoro tra le parti.
Il funzionario della DPL potrà rifiutarsi di sottoscrivere l’accordo di conciliazione qualora appaia manifestamente volto a eludere norme imperative di legge a tutela dei lavoratori ovvero volto a precostituire false posizioni previdenziali.
Effetti della conciliazione e mancato accordo
La conciliazione determina l’estinzione del procedimento ispettivo.
Le eventuali somme pattuite a titolo contributivo e retributivo possono comportare il pagamento di ulteriori somme a titolo di sanzioni civili in relazione ad ipotesi di omissioni contributive.     
In caso di mancato accordo tra le parti, bisogna distinguere se questo è derivato da un comportamento del lavoratore o del datore di lavoro: nel primo caso l’attivazione dell’accertamento ispettivo non è automatico; nel secondo, invece, a seguito della indisponibilità a conciliare del datore di lavoro, la DPLè espressamente “invitata” dalla Circolare a procedere all’accesso ispettivo nel più breve tempo possibile.

Il giudizio di idoneità lavorativa nei soggetti con disturbi psichici
Il giudizio di idoneità lavorativa formulato dal Medico Competente è l’atto medico finalizzato alla valutazione della massima compatibilità tra lo stato psicofisico del lavoratore e i fattori di  rischio cui è esposto nello svolgimento della mansione lavorativa.
Un corretto giudizio di idoneità deve essere sempre  elaborato  tenendo nel giusto conto  il contesto biologico e psichico dell’individuo e l’ambiente lavorativo in cui opera.
Vi sono occasioni però in cui la situazione psicofisica del lavoratore – per le particolari problematiche di cui lo stesso è portatore – richiede uno”sforzo ”aggiuntivo” da parte del MC, al fine di personalizzare al massimo la valutazione “lavoratore-rischio” e fornire nel contempo al DL  indicazioni quanto più chiare far lavorare il dipendente in sicurezza. E’ il caso del lavoratore con:  
  • Alcool-dipendenza;
  • Tossico-dipendenza;
  • Patologie psichiche


 Alcol e Tossicodipendenza

L’attuale normativa in fatto di alcool (legge 125/03, Provv. 16/03/2006) e tossicodipendenza (Provv. 30/10/2007) ha risolto i dubbi valutativi, attuativi e certificativi connessi all’espressione del giudizio di idoneità nei soggetti con problematiche di dipendenza. Sia per il MC che per il DL sono ora chiari e “codificati” i passaggi per la corretta gestione nel contesto lavorativo del lavoratore.    
Patologie psichiche
Disturbi NON incompatibili ma interferenti con la normale attività lavorativa si presentano una o più volte nell’arco della vita in elevata percentuale della popolazione generale (> 20% ) e di questa il 10% viene trattata dallo psichiatra.
Gestione del lavoratore con problematiche psichiche
  • Difficoltà nell’organizzazione e programmazione dell’attività lavorativa
  • Rallentamento dell’attività, se interdipendente da altri centri di lavoro o in “catena” 
  • Difficoltà nell’integrazione e nel rapporto con i colleghi (isolamento,“mobbing di ritorno”)     Disattenzione nell’utilizzo dei DPI
  • Possibile riaccensione del disturbo sul posto di lavoro
  • Costi e difficoltà nell’adeguamento della postazione di lavoroPossibile rivendicazione nei confronti dell’azienda dell’insorgenza/aggravamento dei disturbi a causa dell’attività lavorativa

 A titolo esemplificativo, per quanto riguarda la produttività, nel soggetto con disturbo depressivo di grado lieve-moderato è attesa una “resa” variabile dal 75% al 100% in attività di operaio generico/manovale.
In altri disturbi della sfera psichica (schizofrenia, disturbi della personalità, psicosi) la produttività media, considerate anche le fasi di acuzie, oscilla dal 20% al 40%.
Lo psichiatra vede tradizionalmente nel lavoro un’occasione di socializzazione e di miglioramento relazionale focalizzandosi sulla patologia e sul controllo farmacologico della stessa, ma spesso sottovalutando l’interazione con i fattori di rischio lavorativo. Alla fine è il MC ad assumersi la responsabilità di valutare sul “campo” cosa può fare (in sicurezza) il lavoratore e il DL deve ottemperare le prescrizioni/limitazioni (spesso onerose) contenute nel giudizio di idoneità. 
Patologie psichiche di più frequente riscontro
·         Psicosi schizofreniche
·         Psicosi affettive:                                                                                                  
   disturbo bipolare
   depressione psicotica
·         Disturbi di personalità
·         Disturbi nevrotici:
   disturbi depressivi lievi-moderati
   disturbi d’ansia (fobie, attacchi di panico)
   disturbo dell’adattamento                                                                                    
La maggior parte delle patologie psichiche possono presentarsi con un quadro fenomenologico acuto e successivi periodi anche lunghi di cronicità fra un episodio acuto e l’altro (grazie anche al trattamento farmacologico).
L’osservazione di un disturbo psichico in acuzie, difficilmente compatibile con l’attività lavorativa, comporta sempre la formulazione di un giudizio di inidoneità temporanea o permanente. 
  
Il medico competente e il disturbo psichico in condizioni di cronicità.
Rilevare segni non eclatanti di patologia psichica nel corso di una visita di idoneità lavorativa non è né facile né semplice.
L’esame psichico infatti è un’operazione che richiede tempi non brevi, esperienza nell’impostare e condurre il colloquio, disponibilità dell’esaminando. Occorre infine saper riconoscere sintomi psichici quali elementi di alterazione dello stato normale della persona, nel contesto di una visita che non mira ad una valutazione esclusiva e mirata della sfera psichica. Il Medico Competente, più avvezzo a valutare nel lavoratore l’apparato osteo-articolare, respiratorio, cardiovascolare ecc..  deve curare la raccolta di informazioni relativa alla storia familiare (patologie psichiche nei familiari), lavorativa (frequenti cambi di aziende/mansione), ad eventuali precedenti di patologia psichica, eventuali terapie farmacologiche in atto o pregresse. Può essere utile richiedere al lavoratore, nel corso della visita – in caso di ragionevole dubbio o per incarichi lavorativi particolarmente “delicati”- la rilevazione spontanea in questionario di alcuni sintomi spesso correlati a situazioni di disagio psichico, quali: 
1) Aumentato consumo di alcol e tabacco
2) Dolori muscolari
3) Mal di testa
4) Stanchezza non motivata
5) Pressione alta
6) Dolori della colonna vertebrale
7) Disturbi della digestione
8) Comparsa di malattie della pelle
9) Disturbi del sonno
10) Disturbi del ritmo cardiaco
11) Eventi traumatici
Molto utili – ai fini di un più preciso inquadramento diagnostico di disturbo psichico – possono rilevarsi le informazioni del DL sul comportamento in Azienda: litigiosità immotivata con colleghi, riduzione dell’iniziativa, scarsa diligenza nelle procedure di sicurezza, contestazione di disposizioni aziendali, tendenza all’isolamento, assenteismo, sonnolenza mattutina, assunzione di alcolici nei luoghi di lavoro, manifeste alterazioni comportamentali.
Il Medico Competente valuta l’obiettività clinica (organica e psichica), integrata da eventuali informazioni sulla personalità ed il comportamento del lavoratore nel contesto lavorativo, nel sospetto dell’attualità di segni di sofferenza psichica
  • Contatta il Medico di Base ed eventualmente lo Psichiatra curante
  • Rilascia un’idoneità limitata nel tempo con cambio in mansione a basso rischio infortunistico
  • Rivede il dipendente a scadenze ravvicinate (30-45 giorni)
  • Riammette il dipendente alla mansione originaria a stabilizzazione clinica sentito anche il parere di uno Psichiatra di fiducia
  • Valuta l’interferenza della terapia farmacologica sull’attenzione e la vigilanza nell’attività lavorativa 
In conclusione possiamo dire che la formulazione del giudizio di idoneità lavorativa nel soggetto con problematiche psichiche richiede impegno ed equilibro da parte del Medico Competente che deve individualizzare il più possibile la  sua valutazione.
Al Datore di Lavoro devono essere date precise indicazioni su quello che il lavoratore può fare. A titolo esemplificativo un giudizio di idoneità lavorativa dovrebbe riportare eventuali osservazioni e limitazioni della mansione riguardo
  • Lavoro notturno
  • Impegno psicofisico
  • Responsabilità
  • Rischio infortunistico
  • Flessibilità nelle pause
  •  Impegno orario
  • Formazione e verifica dell’apprendimento in eventuale nuovo incarico
  • Tempi di rivalutazione dell’idoneità (sempre molto ravvicinati)

Un’ esperienza di formazione 

Recentemente, nell’ambito di un contesto amministrativo provinciale si è deciso di organizzare un percorso formativo sul Project Management Sociale (PMS), per venire incontro alle crescenti difficoltà con cui si trovano a confrontarsi gli operatori di questo settore, dovute alle evoluzioni organizzative ed alla complessità sociale.
L’aggiunta della parola “Sociale” ad una metodologia generalmente definita “Project Management” è dovuta alla consapevolezza dell’esigenza di una personalizzazione da effettuarsi su una tecnica che si è sviluppata nel settore privato, e che quindi si ispira a valori e criteri propri di questo settore.
Il  project management
Ilproject management è uno strumento di lavoro con contenuti metodologici e culturali che può ovviare a problematiche inerenti:
  • La necessità di miglioramento continuo nelle organizzazioni, a fronte di fenomeni che ne imbrigliano la crescita e lo sviluppo;
  • L’urgenza di addivenire a soluzioni di tipo innovativo, soprattutto in situazioni dove il tempo ha sedimentato modalità di azione organizzativa inefficaci, a fronte di atteggiamenti rinunciatari;
  • L’atteggiamento del management, i cui risultati sono scarsamente valutati o valutati in maniera ambigua, anche a fronte di evidenti inefficienze.

Logiche del progetto formativo
In base alle considerazioni sin qui effettuate, la progettazione dell’intervento formativo sul PMS, nell’ambito del servizio pubblico, ha dovuto tener conto di alcuni fattori:
  •  Lo scarso utilizzo di strumenti di pianificazione (budget) e di valutazione dei risultati;
  •  La natura stessa del servizio, che nella sua intangibilità rende difficile una rappresentazione condivisa da parte degli operatori sia dell’oggetto di lavoro, sia del processo necessario alla sua realizzazione[1], rendendo così problematica ogni forma di progettazione e pianificazione;
  • I vissuti di “frammentazione” generati negli operatori dai continui cambiamenti, accompagnati, peraltro, a una progressiva “flessibilizzazione” del lavoro.

Il progetto formativo
Il progetto ha quindi la finalità di implementare l’uso del PM “Sociale” nella gestione dei progetti di responsabilità dei capi che partecipano al processo di formazione. Conseguentemente gli obiettivi dell’intervento sono stati:
  • L’apprendimento e la co-costruzione, da parte dei partecipanti, delle tecniche del PMS articolato nelle sue fasi costitutive: ideazione, pianificazione, realizzazione e controllo;
  • Il trasferimento pratico e concettuale delle metodologie nell’ambito delle attività quotidiane, sperimentando e concettualizzando le difficoltà emergenti sia di tipo pratico che di tipo culturale;
  • L’adattamento della metodologia (anche a livello individuale), alle diverse realtà portate dai partecipanti, senza che ciò costituisca una perdita di efficacia del metodo;
  • L’evidenziazione delle “resistenze” individuali e di gruppo nei confronti dell’utilizzo della nuova metodologia.

Risultati del processo formativo e considerazioni finali
Ai formatori è apparso fin dall’inizio che i partecipanti al seminario fossero realmente portatori di realtà organizzative a “complessità crescente”. Ciò è emerso soprattutto dai racconti portati nell’analisi degli autocasi e dalle mappe.
Un lungo lavoro è stato dedicato alla ricostruzione dei contesti, dove molto spesso si intravista una realtà organizzativa dai confini indefiniti, il cui senso complessivo sfugge ai “portatori dei casi” stessi.
Tutto ciò, nei vissuti dei partecipanti, non appare come una realtà da accettare e con cui fare i conti, ma piuttosto come un impedimento all’azione, un “blocco” generatore di un forte disagio personale, su cui si può però far leva per manifestare la propria impotenza.
Quando il paziente lavoro di “chiarificazione”, operato con il supporto dei consulenti, ha evidenziato delle coordinate che, se pur definite in maniera approssimativa, sono tali da aprire a possibilità di azioni o di interventi, sono sembrate emergere le difese individuali e di gruppo che vanno a colludere e a rendere “opaca” la complessità esistente, autorizzando il ritrarsi, il chiamarsi fuori.
Tutto ciò si concretizza nell’apprendimento, condiviso all’interno del gruppo dei partecipanti, che la complessità può essere approcciata solo attraverso lente e continue costruzioni di senso, che non possono però prescindere dalla relazione organizzativa ed emotiva che i vari soggetti instaurano con il proprio contesto lavorativo.
Uno dei vantaggi del PM è che un progetto, una volta lanciato, permette al gruppo di lavoro una relativa autonomia dal contesto più generale. La gestione del progetto consenta un campo di azione più definito e meglio delimitato dell’organizzazione nel suo complesso, a condizione che le varie fasi di ideazione, pianificazione, realizzazione e valutazione vengano attuate con una metodologia corretta e puntuale.


[1] Vedi a questo proposito l’articolo di Franco NatiliLa formazione nei servizi pubblici. Intervista a Cesare Kaneklin – FOR. Rivista per la Formazione –  Luglio-Dicembre 2000 – n°44-45
Carisma : il segreto del leader
di E. Pasini e F. Natili

Quando lo incontriamo ne percepiamo il fascino e spesso anche i lati oscuri. Perchè il carisma da senso e visibilità ad emozioni profonde, sotterranee e diffuse.

O tempora o mores

Quello che colpisce, in realtà, non è il cambiamento, ma la velocità del cambiamento, o più ancora, l’accelerazione del cambiamento. A volte può sembrare incredibile: il mondo ci cambia sotto gli occhi a velocità pazzesca e quasi non ce ne accorgiamo. Prendete il caso dei social network: sono cominciati come per gioco, sulla scorta di intuizioni di giovani, e grazie ad un successo travolgente hanno avuto una crescita esponenziale.
Un caso emblematico è dato da Linkedin, il network di maggior successo, orientato a creare collegamenti professionali. Partito nel 2003 con l’invito ad iscriversi rivolto inizialmente agli amici dei fondatori, ha avuto 4.500 iscritti il primo mese, 81.000 al dicembre dello stesso anno e poi, con una continua impennata, è arrivato a 33 milioni di iscritti a fine 2008.

Numeri ancora più grandi per Facebook che ha oltre 200 milioni di iscritti che crescono ad un ritmo di 500 mila al giorno (ogni giorno una media città si aggiunge al mondo di Facebook). Possiamo, nel pensare a strumenti e processi di gestione delle Risorse Umane, prescindere da questo fenomeno? Certamente no, sia per ragioni culturali che per ragioni di efficienza organizzativa.
Innanzitutto la cultura: le nuove generazioni, e non solo, sono oramai abituate ad avere un ruolo attivo e non puramente ricettivo, pertanto non possiamo prescindere da questo nel rapportarci a loro. Dobbiamo dialogare e farli dialogare tra loro: penso ad esempio alla promozione di nuove iniziative, all’incentivazione di nuove idee, alla creazione di team di sviluppo di nuovi progetti, alla socializzazione di idee etc.
Un campo in cui sicuramente i social network stanno portando nuovi approcci è il recruitment e lo scambio di idee. Sempre più spesso, chi cerca un lavoro si muove attivando contatti sul web (Linkedin ma non solo), analogamente le aziende più che avvalersi di mezzi tradizionali per la ricerca di personale, visitano i social network a caccia di candidature interessanti.
Ancora più interessanti risultano le comunità professionali e di pratica che si creano e si consolidano via social network, consentendo non solo di fare rete e di creare contatti, ma di scambiare esperienze, informazioni, di dibattere temi anche importanti per la professione e financo di fornirsi di piccole consulenze reciproche.
Questo trend ha indotto alcune aziende a promuovere la creazione di network aziendali proprio nell’ottica di aumentare l’efficacia dell’organizzazione, tollerando anche qualche inevitabile prezzo in termini di efficienza: l’output in termini di innovazione e di socializzazione (e quindi di compattezza del corpo aziendale) lo ripaga ampiamente.

La rivoluzione dei social network e dei video Cv

Era quasi inevitabile: nell’era del Web2.0 la selezione del personale non poteva sfuggire alla rivoluzione. Carta e penna addio, anche nel recruiting l’ultima frontiera sono i pixel. Le “agorà digitali” vanno sostituendosi al classico passaparola e si parla ora di E- recruitment.
Le prime avvisaglie si ebbero qualche anno fa, quando le aziende iniziarono ad utilizzare piattaforme, portali di recruiting, motori web o siti per la pubblicazione di brevi annunci, scrutinando e selezionando direttamente le candidature pervenute e riducendo notevolmente i tempi ed i costi legati alla ricerca e alla selezione di nuove risorse.

Un’ulteriore evoluzione si è avuta, però, con la nascita e la diffusione dei social network. Facebook, Myspace, Twitter, Delicious, Linkedin,etc., nati come non luoghi di amicizia e svago, stanno, con sempre più frequenza e sempre più successo, diventando luoghi dove condividere anche le proprie esperienze professionali. Le imprese più avanzate non si lasciano scappare l’occasione ed utilizzano le business community per cercare nuovi candidati. Il caso più noto è rappresentato da LinkedIn, che dal 2003 detiene il titolo di più grande social network professionale al mondo, con professionisti di 200 paesi, più di 170 settori di business e oltre 43 milioni di utenti. La vera forza di questo servizio è data dal sistema di relazioni che lo sostengono, basate su referenze reciproche tra i vari utenti.
I social network si è scoperto essere canali velocissimi nel “far girare la voce” riguardo la ricerca di profili, tant’é che anche Facebook ha reso possibile l’incontro tra domanda e offerta indicizzando e categorizzando le offerte di lavoro inserite dalle aziende in modo da raggiungere gli utenti che hanno un profilo in linea con l’offerta. 
Le nuove tecnologie collaborative del WEB 2.0 permettono oggi di costruire sistemi di relazioni a rete, basati su fiducia e cooperazione, molto estesi e ramificati. Merito dei cosiddetti legami deboli (cfr Granovetter, 1973), quelli che abbiamo con amici, conoscenti, colleghi, compagni di squadra, et. che, grazie alla loro conformazione strutturale più aperta e dinamica tendono a ramificarsi verso l’esterno, stabilendo connessioni con soggetti eterogenei, creando maggiori e migliori opportunità di incontro tra domanda e offerta.
Cambiano, dunque, i modi, e i luoghi del recruiting, ma cambia anche il modo di presentarsi: anche in Italia si sta, infatti, diffondendo il cosiddetto video curriculum.
Galeotto fu Youtube: si è incominciato a “postare” filmati di scherzi e bravate tra amici, si è passati, poi, a riprendere le performance della propria band in cantina (sperando di farsi notare da qualche talent scout), e infine ecco l’idea del video cv. A differenza del foglio bianco e della ben confezionata lettera di presentazione, l’ultima trovata di chi ha dimestichezza con le nuove tecnologie, permette quella spontaneità e quella creatività che ben si sposano con gli ambienti dinamici e aperti dei social network.

I vantaggi, rispetto ad un curriculum standard, infatti, sono chiari: immediatezza, libertà di espressione, possibilità di impressionare i selezionatori più rapidamente, nonché possibilità, per il candidato, di dimostrare padronanza nell’uso delle nuove tecnologie.
Molti gli stili possibili per cercare di condensare le proprie esperienze facendo risaltare capacità e potenzialità. Esistono video basic, con aggiunta di videografica o creativi. Minimalisti, surrealisti e ironici possono oggi ricorrere ai consigli di esperti o siti specializzati su come strutturare e confezionare i propri filmati.
Eh sì, perchè come per la realizzazione di un film, anche la produzione di un video cv rispetta alcune regole fondamentali, tra cui buona qualità, durata e buon mixaggio delle scene.
Ma cosa ne pensano gli “addetti ai lavori” di tutta questa tecnologia e di tutti questi cambiamenti?
Chi si occupa di selezione del personale ritiene che si tratti di innovazioni importanti che aprono nuovi scenari e nuove prospettive per le aziende stesse. Si tratta sostanzialmente di finestre attraverso le quali le aziende possono conoscere più “da vicino” il candidato, nonché monitorare usi e tendenze della società e del mercato.
Per le imprese e le Risorse Umane in particolare, sfruttare i social network ha diversi vantaggi: se la voce “Altre capacità e competenze” e “interessi” sono stimati di rilevante importanza in un normale CV cartaceo, nel Web, ed in particolare con un video CV, tutto questo è direttamente misurabile e verificabile.
Attraverso i social network le aziende possono creare un immagine d’impresa forte e attirare risorse di un certo livello.
Al digital recruiting, infine, sono applicabili tutte le tecniche del marketing e social media marketing, in grado di creare una vera community intorno alle Risorse Umane, a partire ad esempio, dagli studenti neolaureati.
27 Mar 2009

Cambiamento


Top down o bottom up?

Si fa strada l’idea che il cambiamento non è più lineare e prevedibile, ma procede per salti e discontinuità, riflettendo probabilmente una dinamica della contemporaneità che avevamo già toccato.

Lo avevamo già anticipato, infatti, citando Nassim Taleb e la sua idea che stiamo uscendo dall’era del Mediocristan per entrare in quella dell’Estremistan, un’epoca in cui il mondo, nella sua evoluzione, non cammina ma salta.
Ci ripropone il concetto Zygmunt Barman, nel suo nuovo libro “L’etica in un mondo di consumatori”, parlando di una dimensione temporale che non può essere quella ciclica, ripetitiva, propria delle certezze, ma non è più neanche quella lineare del progetto e degli obiettivi. Lui, infatti, la chiama “dei punti”, fatta attraverso la neutralizzazione del passato e la capacità di rinascere con facilità a nuova vita professionale, in una varietà di forme e di nuovi inizi.

I concetti di riferimento tradizionali si evolvono e tendono a modificare antinomie consolidate, che costituivano punti di riferimento certi e soprattutto patrimonio culturale implicito di tutti.
Il mondo contadino e pastorale, fatto di regole chiare e soprattutto di eventi ricorsivi, il tempo delle civiltà contadine, ciclico, in cui i processi si ripetono come le stagioni, all’interno di un sistema economico ben regolamentato, sta scomparendo. Complice la lenta riduzione degli spazi d’azione dei monopoli e il tentativo di introdurre meritocrazia e valutazioni per obiettivi nelle burocrazie. Anche l’agricoltura, comparto ciclico per eccellenza, d’altro canto, attraversata dal vento della multifunzionalità, che amplia il proprio spazio d’azione e introduce il concetto di vendita diretta e di mercato, si confronta con competenze e capacità proprie di comparti economici più evoluti.
Chi si era già abituato a lavorare per progetti ed obiettivi, è ugualmente sottoposto alla tensione del cambiamento discontinuo. La concorrenza globale, la crisi economica che non accenna a terminare, la ricerca di efficienza assieme alla necessità di mantenere qualità e servizio al cliente, l’evolversi delle tecnologie, aumentano le complessità e la necessità di ricercare equilibrio tra le antinomie. Saper pianificare, programmare, perseguire con metodo un obiettivo, può non essere sufficiente per avere successo.
Alcuni fenomeni di questa complessità erano già evidenti. Come l’evoluzione di ruoli (leggi Marco Guerci) tradizionalmente votati alla difesa dell’ordine ciclico, che devono confrontarsi con l’accompagnare cambiamenti e discontinuità.
Altri sono un fenomeno più recente. Due su tutti, tra i tanti. Uno lo troviamo nel nostro “focus” ed è connesso allo sviluppo della tecnologia, forse il maggiore detonatore di cambiamento tra quelli contemporanei. La tecnologia aumenta la capacità di connettersi e di valorizzarsi. E questo è un fenomeno che sta modificando anche la tradizionale ricerca del personale, come ci segnalano Valentina Pozzatello ed Enrico Cazzulani, consentendo alle persone più opportunità e forme per proporsi e alle aziende più canali per ricercare.

L’altro è evidente nelle nuove forme di Legacy, che tendono a coniugare in modo strutturato due modalità di cambiamento, spesso contrapposte tra loro, nel Lean Six Sigma. Il metodo, infatti, tende a conciliare due approcci spesso contrapposti: la democratica e partecipativa Lean Production e il razionale e specialistico Six Sigma. L’una votata ad un movimento esteso di cambiamento bottom up e l’altro ad un necessario e guidato indirizzo top down.  La riconciliazione di queste due antinomie stressa la capacità di articolare e guidare progetti complessi. Lo sforzo cognitivo di contenere, coniugare, alternare nello stesso contesto i due approcci riporta al tema del presente: la varietà delle forme che assume il cambiamento e la spinta, insita nei fatti, a superare modelli tradizionali di visione organizzativa


Valutazione stress lavoro correlato: perchè farla.

Il D.Lgs 81/08 richiede al datore di lavoro di valutare “tutti i rischi per la sicurezza e la salute dei lavoratori ivi compresi quelli riguardanti gruppi di lavoratori esposti a rischi particolari tra cui anche quelli collegati allo stress lavoro-correlato”. Per quest’ultimo, il termine ultimo di valutazione è stato prorogato al maggio 2009 dal Decreto Legge 207 del 30/12/2008.

Nel frattempo, su aziende e Medici Competenti si sono riversate proposte di consulenza con l’utilizzo di strumenti valutativi (test-questionari) e metodologie d’indagine sullo stress tra le più disparate, segno anche della percezione di un promettente business. In conseguenza di ciò è venuto a crearsi in molti Datori di Lavoro (DL) e RSPP un clima di incertezza e confusione su quali binari indirizzare la scelta metodologica e a quali figure professionali/consulenziali fare riferimento.

Cercheremo di rispondere ai quesiti che molti Datori di Lavoro si sono posti, complice anche un’informazione corrente molto tecnica e specialistica.

Chi deve effettuare la valutazione del rischio e nel caso questa venga omessa cosa si rischia?

La valutazione dello stress è obbligo datoriale, da effettuare al pari degli altri rischi, in collaborazione con RSPP e medico competente. Quest’ultimo, nel caso specifico, rappresenta una figura chiave nell’iter valutativo in quanto può mettere a disposizione, in forma anonima, i dati clinici ed epidemiologici – anche storici – emersi dalla sorveglianza sanitaria aziendale e quelli relativi ad eventuali fattori di rischio legati all’organizzazione del lavoro.
Nel caso di omessa valutazione sono previste sanzioni anche penali per il datore di lavoro. Fermo restando il ruolo del RSPP e del MC (Medico Competente) nella valutazione dello stress, come per altri rischi il DL può richiedere la collaborazione anche di consulenti esterni (psicologo del lavoro) e ciò anche in rispetto alle indicazioni fornite dal D.Lgs 81/08 art. 31 comma 3 in base al quale  “il datore di lavoro può avvalersi di persone esterne alla azienda in possesso delle conoscenze professionali necessarie, per integrare, ove occorra, l’azione di prevenzione e protezione del servizio.

Con quali modalità deve essere effettuata la valutazione del rischio stress?
La valutazione del rischio riguardante lo stress richiede l’adozione degli stessi principi utilizzati nella valutazione di altri pericoli presenti sul luogo di lavoro.
Come suggerito anche dall’accordo europeo sullo stress lavoro-correlato stipulato a Bruxelles l’8/10/2004 e recepito in Italia l’8/06/2008 nella valutazione dello stress si possono identificare le seguenti tappe fondamentali:
  • Individuare i pericoli attraverso la rilevazione delle fonti di stress;
  • Individuare i gruppi a rischio attraverso la rilevazione di indicatori oggettivi e comportamentali considerati come significativi indicatori di stress;
  • Decidere quali azioni preventive adottare;
  • Intervenire con azioni concrete;
  • Controllare e revisionare.

E’ importante sapere che quello che vogliamo valutare è “il rischio stress lavoro correlato” e non lo “stress correlato al lavoro”. E’ necessario in sostanza distinguere i fattori che inducono stress – obbiettivo della nostra ricerca – da quelle manifestazioni più o meno patologiche che possono, ma non necessariamente, essere espressione di reattività individuale allo stress. Questo ci impone una riflessione sull’uso indiscriminato di test somministrati al lavoratore a volte nominativi e che spesso rappresentano vere e proprie indagini sulla personalità del singolo, al limite di quanto fa divieto l’art. 8 della Legge 300/70. E’ un modo incoerente di valutare il rischio stress nella stessa misura in cui potrebbe essere illogica una valutazione del rischio rumore effettuata non con la misurazione della rumorosità ambientale e delle macchine ma con l’esame dell’udito del singolo dipendente.
Il percorso adottato in questa tipologia di valutazione centrato sulla persona e non sui fattori di rischio collettivi, porta ad avere solo un mosaico di valutazioni individuali/soggettive. A questo punto è chiaro che ogni strumento diagnostico quali test, interviste, deve essere utilizzato nell’ambito della ricerca di segnali di stress nel gruppo (focus group, reparti, etc.).

I costi, sono sicuramente dipendenti dalla complessità dell’indagine, dalle figure consulenziali coinvolte e, perché no, anche dallo “spessore” dello psicologo del lavoro e del medico competente.
Per il datore di lavoro che considera uno spreco di risorse la valutazione dello stress (ammesso che sia disinteressato alle sanzioni) ricordo che in questa occasione ha la possibilità di “tastare” il polso all’elemento umano e al modello di organizzazione che si è dato in azienda. Quello che viene chiamato anche analisi del clima aziendale e benessere organizzativo.
Le stime dei costi diretti e indiretti legati a situazioni di stress sono impressionati:

  • Danimarca: 20% di rischio attribuibile allo stress per le patologie cardiovascolari (1991);
  • Svizzera: costi annuali attribuibili allo stress: circa 4.2 miliardi di franchi, pari al 1,2% del PIL (2000);
  • UK: perse circa 40 milioni di giornate lavorative ogni anno per problemi connessi a stress (1999);
  • Svezia: 14% delle assenze prolungate, in un campione di 15000 lavoratori, legate a patologie da stress (1999);
  • EU: stimato in più di 20 miliardi di euro il costo globale  dello stress nell’Unione Europea (costi lavorativi, personali e sociali) (2005).
In conclusione ricercare lo stress è un ottimo investimento che rende all’azienda in quanto la conoscenza da parte del datore di lavoro dei fattori di rischio facilita la salute e il benessere dei lavoratori migliorandone produttività e rendimento. 

Nuovi orientamenti giurisprudenziali in tema di danni alla persona.
Il recente Testo Unico in materia di sicurezza sul lavoro, D.Lgs. n. 81 del 9 aprile 2008, ha posto l’accento sulla necessità di prevenire, in azienda, situazioni stressanti, potenzialmente lesive della salute dei dipendenti.
Ed infatti, l’art. 28 del nuovo TU sicurezza ha imposto ai datori di lavoro di inserire nella valutazione dei rischi anche quelli derivanti da “stress  lavoro-correlato” e di adottare le opportune misure di prevenzione.
Ma cosa si deve intendere per “stress lavoro-correlato”?
Una prima indicazione proviene dall’Europa: l’Accordo Europeo del 8.10.2004, recepito in Italia solo di recente ad opera dell’Accordo Interconfederale del 9 giugno 2008, haespressamente chiarito che “Lo stress non è una malattia, ma una situazione di prolungata tensione (che) può ridurre l’efficienza sul lavoro e può determinare un cattivo stato di salute”. La definizione è quindi molto ampia e si presta a ricomprendere un gran numero di situazioni frequentemente riscontrabili al lavoro, e potenzialmente dannose per il lavoratore.
In questo contesto, deve il datore di lavoro nella valutazione dei rischi ricomprendere quei fenomeni riconducibili al c.d. mobbing? Il TU sicurezza impone di adottare misure di prevenzione contro il mobbing?

La questione è di non agevole soluzione, soprattutto in considerazione del fatto che lo stesso fenomeno del mobbing non è, ad oggi, disciplinato dalla legge, ma è, piuttosto, oggetto di una vasta e non sempre univoca produzione giurisprudenziale.

Tra le questioni più dibattute, e che più vengono in rilievo in tema di mobbing (e più in generale in merito alla responsabilità del datore di lavoro per la salute dei propri dipendenti) vi è senz’altro il tema del danno risarcibile e delle sue molteplici varianti (danno patrimoniale, non patrimoniale, esistenziale, biologico, morale, estetico, relazionale, ect.).
In effetti, si è assistito, nell’ultimo decennio almeno, ad un proliferare di sentenze (soprattutto dei Giudici di Pace o della magistratura di merito) che hanno accolto, con sempre maggior larghezza, richieste di risarcimento per danni di ogni tipo (per la morte del cane o per la serata mancata al teatro, per le vacanze rovinate o per lo stress derivante dai disservizi postali) e che hanno legittimato la moltiplicazione dei profili risarcitori e, contemporaneamente, allargato la responsabilità civile (ad esempio dei datori di lavoro) anche per fatti prima considerati socialmente “neutri”, e non lesivi.
Con una importante Sentenza (n. 26972, dell’11.11.2008), le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno finalmente chiarito e dato sistematicità al concetto del danno alla persona e definito i limiti della risarcibilità degli interessi non patrimoniali. Tra i passaggi più significativi della sentenza della Cassazione  vi è l’affermazione che, nell’ordinamento, non esiste un “diritto alla felicità” tout court,risarcibile ogni volta che se ne ravvisi la minima violazione. Ha osservato la Corte che “non meritevoli dalla tutela risarcitoria, invocata a titolo di danno esistenziale, sono i pregiudizi consistenti in disagi, fastidi, disappunti, ansie ed in ogni altro tipo di insoddisfazione concernente gli aspetti più disparati della vita quotidiana che ciascuno conduce nel contesto sociale”. La Corte ha anche statuito che “Il filtro della gravità della lesione e della serietà del danno attua il bilanciamento tra il principio di solidarietà verso la vittima e quello di tolleranza, con la conseguenza che il risarcimento del danno non patrimoniale è dovuto solo nel caso in cui sia superato il livello di tollerabilità ed il pregiudizio non sia futile”.
Questi importanti approdi giurisprudenziali sono senz’altro utili strumenti per l’interprete, per cercare di definire quali sono i reali rischi da “stress lavoro-correlato”, che risultano, pertanto, notevolmente ridimensionati e comunque adeguatamente contestualizzati.
Spetterà ora agli operatori del diritto, in primis alla magistratura di merito e agli Organi Ispettivi dare adeguata attuazione agli importanti (e per molti versi innovativi) orientamenti espressi dalle Sezioni Unite della Cassazione.